Come funziona il congedo parentale?

Il congedo parentale è un periodo di astensione facoltativa dal lavoro concesso ai genitori per prendersi cura dei figli piccoli. Si tratta di una misura pensata per conciliare vita lavorativa e familiare, permettendo di dedicare tempo ed attenzioni alla crescita dei bambini nelle fasi iniziali senza contare che si riduce notevolmente lo stress e l’ansia dei neogenitori, fattori spesso collegati a un calo del rendimento professionale. In poche parole, il congedo parentale offre un sostegno fondamentale per bilanciare gli impegni genitoriali con quelli professionali. Quadro normativo di riferimento L’istituto del congedo parentale affonda le sue radici nella Legge 53/2000, poi integrata e ridefinita da altre disposizioni come il Testo Unico 151/2001 e i vari aggiornamenti apportati negli ultimi anni, tra cui spiccano la Riforma Fornero e il Decreto Legislativo 105/2022 che ne hanno ampliato diritti e tutele. Prima di tutto è da evidenziare come gli assi portanti del congedo siano stati preservati nel tempo: accessibilità per ogni figlio a prescindere dal loro numero, estensione anche ai padri lavoratori con mogli casalinghe o non coperte da tutela previdenziale, focus sull’importanza di un work-life balance a misura di famiglia. Destinatari e requisiti Lavoratori dipendenti Il congedo parentale spetta ai lavoratori dipendenti, sia a tempo determinato che indeterminato, purché vi sia un rapporto di lavoro attivo al momento della richiesta. La durata complessiva è di 9 mesi fra entrambi i genitori, di cui 3 mesi intrasferibili per ciascun genitore più ulteriori 3 mesi frazionabili tra madre e padre. L’indennità prevista è pari all’80% della retribuzione media giornaliera per 2 mesi (uno per genitore, non trasferibile) fino ai 6 anni di età del bambino e scende poi al 30% fino ai 12 anni. Lavoratori autonomi Anche i lavoratori autonomi hanno diritto al congedo parentale, ragion per cui risulta fondamentale informarsi per tempo sulle modalità di fruizione. È necessario astenersi effettivamente dal lavoro e dimostrare il versamento dei contributi Inps almeno per il mese precedente la richiesta. L’indennità ammonta al 30% della retribuzione convenzionale stabilita ogni anno dall’Inps in base alla categoria professionale. Modalità e tempistiche Durata Il congedo parentale può essere richiesto entro i 12 anni di vita del bambino. La durata complessiva è di 10 mesi conteggiando entrambi i genitori, estendibile a 11 mesi qualora il padre ne fruisca per almeno 3 mesi (anche in modo frazionato). Dal 2023, come accennato in precedenza, il limite massimo indennizzabile sale a 9 mesi contando sia i 3 mesi intrasferibili per ciascun genitore che i 3 mesi frazionabili fra entrambi. Frazionabilità Uno dei vantaggi del congedo parentale è l’elevata flessibilità. È possibile frazionare il periodo in giorni e ore. Le giornate di congedo vanno poi sommate al raggiungimento del limite convenzionale di 30 giorni. Superato il mese, si calcolano poi i mesi interi di congedo e i giorni residui. Questa modularità consente di venire incontro alle diverse necessità lavorative e familiari che possono emergere. Congedo parentale e altri istituti a confronto Differenze con maternità e paternità Mentre congedo parentale e paternità hanno natura facoltativa, il congedo di maternità è obbligatorio. Quest’ultimo garantisce 5 mesi complessivi di astensione fra gravidanza e post-parto, di cui 2 mesi precedenti la data presunta del parto e 3 successivi. L’indennità è pari all’80% della retribuzione, integrata al 100% da alcuni contratti collettivi. Il congedo di paternità obbligatorio ammonta invece a 10 giorni con retribuzione piena al 100%, con l’obiettivo di coinvolgere il padre fin dalle prime fasi di vita del neonato. Differenze con i permessi retribuiti I permessi retribuiti a ore previsti dalla Legge 53/2000 (Riposi giornalieri e congedi malattia per bambino) sono utilizzabili solo fino al primo anno di vita del bambino e non prevedono un’indennità economica ma la normale retribuzione. Si differenziano dunque per durata e natura del compenso. Senza contare che il congedo parentale consente periodi di assenza più lunghi e programmabili. Come richiedere il congedo Modulistica e documentazione necessaria La richiesta può essere inoltrata tramite il portale web dell’Inps, rivolgendosi a patronati o intermediari abilitati oppure chiamando il contact center dell’Istituto. Serviranno dati anagrafici propri e del figlio, oltre alla documentazione relativa al rapporto di lavoro attivo e al versamento dei contributi se lavoratori autonomi. Prima di tutto è fondamentale informare per iscritto il datore di lavoro della durata e modalità di fruizione scelte. La domanda va inviata prima dell’inizio del periodo di congedo richiesto. In caso di presentazione tardiva, l’indennità non verrà corrisposta per i giorni precedenti la data della richiesta ma solo a partire dal giorno di invio della stessa. Meglio dunque muoversi con un certo anticipo comunicando per tempo le proprie intenzioni al datore di lavoro. Gestione del congedo in azienda Impatti organizzativi La fruizione del congedo parentale può comportare un certo impatto organizzativo in azienda legato alla temporanea assenza di personale. Diventa quindi importante pianificare attentamente turni e attività, distribuendo diversamente i carichi di lavoro e valutando soluzioni quali straordinari, nuove assunzioni a termine o rimodulazione dei flussi produttivi. Buone pratiche di gestione delle risorse umane prevedono una programmazione tempestiva insieme al lavoratore, così da ridurre al minimo eventuali ricadute operative. Comunicazione con il lavoratore La chiave per gestire senza intoppi il congedo parentale risiede nel dialogo e nella collaborazione con il dipendente/collaboratore interessato. Ricevuta la comunicazione della volontà di avvalersi del diritto, il datore di lavoro è tenuto ad informare circa le modalità di fruizione e i limiti temporali previsti. Così come è fondamentale supportare il neogenitore sia prima che dopo il periodo di congedo, ad esempio garantendo una ripresa graduale dell’attività lavorativa senza eccessivi stress. Prospettive future Negli ultimi anni le politiche a favore della genitorialità e della conciliazione famiglia-lavoro hanno conosciuto una felice evoluzione. Il progressivo allungamento della durata dei congedi e l’aumento delle relative indennità economiche confermano l’impegno del legislatore verso una società più inclusiva, che non costringa a dolorose scelte fra carriera e maternità/paternità. Ci sono buoni motivi per ritenere che questo trend positivo non si esaurirà a breve ma anzi proseguirà con nuovi interventi volti a rafforzare i diritti di mamme e papà lavoratori. Ed è

Aspettativa non retribuita: che cos’è e come funziona

L’aspettativa non retribuita, talvolta chiamata anche congedo non retribuito, è un periodo di pausa dal lavoro durante il quale il dipendente si assenta senza percepire la retribuzione. Il lavoratore ne fa esplicita richiesta al datore per motivi personali previsti dalla normativa vigente e, nonostante l’assenza dal servizio, mantiene il proprio posto di lavoro e il rapporto di lavoro. La caratteristica principale sta nel fatto che il lavoratore non percepisce alcun compenso economico per tutta la durata dell’aspettativa. Quest’ultima si differenzia quindi nettamente dall’aspettativa retribuita, dove invece la retribuzione continua ad essere corrisposta anche in costanza di assenza dal lavoro.  In entrambe le situazioni il lavoratore ha comunque diritto alla conservazione del posto di lavoro per l’intero periodo di aspettativa richiesto. Ciò significa che il datore di lavoro non può licenziare il dipendente solamente perché si è assentato dal lavoro facendo ricorso all’istituto dell’aspettativa. Quando si può richiedere l’aspettativa non retribuita Le ragioni che consentono ai lavoratori dipendenti di richiedere periodi di aspettativa non retribuita sono diverse e ben specificate dalla legge. Analizziamo nel dettaglio i motivi più ricorrenti. Aspettativa non retribuita per gravi motivi familiari La legge 53/2000 e il decreto ministeriale 278/2000 riconoscono espressamente la possibilità per i lavoratori dipendenti di usufruire di periodi di aspettativa non retribuita per gravi motivi familiari. La durata massima complessiva è di 2 anni, anche frazionati, nell’intero arco della vita lavorativa. I gravi motivi familiari possono riguardare direttamente la persona del lavoratore oppure i suoi familiari e affini entro il terzo grado di parentela, come il coniuge, i figli, i genitori, i nonni, gli zii e via dicendo. Per familiari si intendono anche il convivente o il parte dell’unione civile, se la convivenza risulta da certificazione anagrafica. Le situazioni che vengono considerate “gravi motivi” sono ad esempio: l’assistenza per malattie o disabilità di un familiare, impegno a seguito del decesso di un congiunto, altre condizioni di grave disagio personale in cui versa il dipendente, ad eccezione della malattia. Aspettativa non retribuita per motivi personali Oltre ai gravi motivi familiari, si può ottenere l’aspettativa non retribuita anche per ragioni personali del lavoratore dipendente. Tali motivi però non devono riguardare situazioni di malattia o maternità, per le quali sono previsti specifici istituti e tutele. I motivi personali possono essere i più disparati: periodi di volontariato, attività formative extra-lavorative, situazioni di tossicodipendenza propria o di un familiare, ed altri motivi non meglio specificati rimessi alla discrezionalità del datore di lavoro. I contratti collettivi di settore possono anche prevedere ulteriori ipotesi tipiche di aspettativa non retribuita per esigenze del dipendente. Aspettativa non retribuita per tossicodipendenti e loro familiari Un caso specifico di aspettativa per motivi personali è quello riguardante i lavoratori affetti da tossicodipendenza e i loro familiari. L’articolo 124 del DPR 309/1990 consente infatti di ottenere periodi di aspettativa non retribuita, fino ad un massimo di 3 anni complessivi, al fine di partecipare a programmi terapeutici e riabilitativi organizzati presso i servizi sanitari delle ASL. Per avvalersi di questa particolare aspettativa è necessario che lo stato di tossicodipendenza sia stato accertato dal SERT competente. Anche in questo caso, i contratti collettivi possono prevedere requisiti o modalità specifiche di accesso all’aspettativa. Aspettativa per formazione professionale Un periodo di aspettativa non retribuita può inoltre essere richiesto, per una durata massima di 11 mesi complessivi, dai lavoratori con almeno 5 anni di anzianità in azienda per motivi di studio e formazione professionale. Nel dettaglio, i motivi validi per accedere all’aspettativa formativa sono: il completamento della scuola dell’obbligo, il conseguimento di un diploma di scuola superiore o di un titolo accademico, la partecipazione ad attività formative diverse da quelle eventualmente già finanziate dal datore di lavoro. Anche in questo caso, i contratti collettivi possono specificare le modalità di richiesta ed eventuali limiti numerici di dipendenti che possono simultaneamente avvalersi di questo tipo di aspettativa. Aspettativa per cariche pubbliche Una forma di aspettativa obbligatoria è quella prevista dalla Legge 300/1970 per i lavoratori del settore privato che vengono eletti a cariche politiche e pubbliche. Hanno quindi diritto all’aspettativa non retribuita per l’intera durata del mandato coloro che ricoprono, a titolo esemplificativo, le cariche di: Analogamente, anche i dipendenti nominati a ricoprire cariche in enti pubblici locali hanno diritto ad assentarsi dal lavoro per l’aspettativa. Aspettativa dal lavoro per cariche sindacali I lavoratori del settore privato investiti di cariche sindacali a livello provinciale o nazionale hanno diritto, per tutta la durata del loro mandato, ad assentarsi dal lavoro fruendo dell’aspettativa non retribuita. L’aspettativa può essere fruita anche in modalità frazionata, come confermato dalla Cassazione. Come richiedere l’aspettativa non retribuita Vediamo ora in dettaglio qual è l’iter da seguire per avanzare correttamente richiesta di aspettativa non retribuita al datore di lavoro. Il lavoratore interessato deve presentare formale domanda all’azienda, indirizzandola tipicamente all’ufficio personale o alle risorse umane. Nella richiesta vanno specificati tutti gli elementi essenziali, quali: Se previsto dal contratto collettivo applicabile, vanno seguite le particolari procedure stabilite da quest’ultimo. Ad esempio, in caso di gravi motivi familiari, il datore deve fornire riscontro entro 10 giorni, oppure entro 3 giorni per i casi urgenti. Documentazione necessaria Unitamente alla domanda va prodotta idonea documentazione che comprovi l’effettiva sussistenza della motivazione addotta. Ad esempio, per le aspettative familiari, certificati medici o di decesso. Per quelle formative, copia dell’iscrizione al corso di studi. Così da consentire al datore le necessarie verifiche. In mancanza di previsioni del contratto collettivo, il datore di lavoro deve in ogni caso rispondere per iscritto alla richiesta di aspettativa entro 10 giorni. Può rifiutare l’aspettativa solo per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Aspetti contrattuali e previdenziali Analizziamo ora quali sono le principali ricadute dell’aspettativa non retribuita su alcuni profili del rapporto di lavoro. Conservazione del posto di lavoro Come già accennato, per tutto il periodo di aspettativa non retribuita il lavoratore ha diritto alla conservazione del proprio posto di lavoro. Il datore di lavoro non può quindi licenziarlo per il semplice fatto che si è assentato fruendo dell’aspettativa. Divieto di svolgere altre attività lavorative In linea generale, durante l’aspettativa non

Welfare aziendale: cos’è

Il welfare aziendale è un approccio che permette di aumentare la produttività e il benessere all’interno dell’impresa, rafforzando la collaborazione tra le varie parti e migliorando le prestazioni dell’azienda. Vediamo, quindi, che cos’è il welfare aziendale, perché è opportuno sviluppare un piano aziendale e quali sono i principali vantaggi di cui beneficiare per il dipendente e l’impresa. Che cos’è il welfare aziendale Con il termine welfare aziendale si vuole indicare una serie di attività e iniziative prese in considerazione dal datore di lavoro per migliorare l’ambiente lavorativo e permettere al proprio dipendente di avere diversi vantaggi in termini di benessere. Se il lavoratore sta bene e si trova proprio agio sul posto di lavoro, ci sono indubbi vantaggi anche per l’impresa che vede migliorare la produttività e la qualità dei propri prodotti e servizi. Da notare che con questo termine si vuole far riferimento all’opportunità di migliorare la qualità di vita del lavoratore anche al di fuori degli orari di lavoro. Infatti, tra le varie pratiche e attività che possono essere messe in atto c’è quella di aumentare il potere di acquisto delle famiglie dei lavoratori. Non c’è un metodo univoco per migliorare il welfare aziendale e di conseguenza il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, ma una serie di soluzioni che devono essere prese in considerazione rispetto alle esigenze dei dipendenti e del contesto sociale. Ci sono tante attività che potrebbero trovare la soddisfazione del tuo collaboratore come, ad esempio, prevedere il rimborso delle spese sostenute dell’attività lavorativa oppure aumentare il salario quando si raggiunge un determinato livello di produzione. Fare welfare aziendale può significare anche anticipare l’erogazione di determinati servizi, mettere a disposizione dei benefit aziendali come i buoni pasto oppure degli incentivi per le spese necessari per la mobilità . O ancora coprire le spese per viaggi personali, tasse universitarie, spese mediche. Come funziona il welfare aziendale Per poter mettere in atto tutte queste cose che migliorano l’ambiente lavorativo e creano un rapporto particolare tra il dipendente e il datore di lavoro, è necessario sviluppare un apposito piano di welfare aziendale. Tutto parte dall’analisi delle esigenze dei tuoi dipendenti, magari proponendo loro dei questionari nei quali possono indicare alcuni miglioramenti delle attività lavorativa e di vantaggi che potrebbero dimostrarsi importanti per innalzare il livello della qualità di vita. Ad esempio, potresti prendere in considerazione di proporre dei buoni benzina e offrire varie forme di divertimento e di accesso a premi rispetto a livello di produttività raggiunto. Le opportunità non finiscono qui perché potresti pensare di attivare promozioni e convenzioni per avere accesso a beni e servizi che vengono proposti da altre aziende partner. Dopo aver analizzato tutte queste possibili esigenze del dipendente e della sua famiglia devi individuare, per l’appunto, un partner che ti permetta di introdurre questi servizi. Il tutto viene gestito attraverso un’apposita piattaforma welfare necessariamente conforme alle normative vigenti e che consente di avere flessibilità e piena autonomia per il dipendente. L’ultima fase è sostanzialmente quella in cui si va ad annunciare e comunicare ai dipendenti l’attivazione del piano di welfare aziendale che permetterà loro di avere delle migliorie rilevanti per quanto riguarda la loro vita. Fringe benefit a Flexible benefit È possibile suddividere i benefit che puoi riconoscere ai tuoi lavoratori in due principali categorie: fringe benefit e flexible benefit. I fringe benefit rappresentano una forma di compenso aggiuntivo che il datore di lavoro può scegliere di corrispondere liberamente ad un determinato dipendente. Non si tratta di un compenso in denaro ma piuttosto delle concessioni che migliorano la qualità di vita come un telefono cellulare aziendale, la macchina aziendale in concessione privata, un personal computer e tanto altro. Da un punto di vista normativo questi benefici vengono regolati mediante il contratto individuale stipulato con l’azienda e – oltre una certa soglia – fanno parte del reddito del dipendente. I flexible benefit sono invece i beni oppure i servizi che vengono erogati ai dipendenti affiancandoli al reddito. Possono essere frutto di una libera scelta da parte dell’azienda, esito di un accordo sindacale o ancora normati dai CCNL. In ogni caso devono essere corrisposti ad un’intera categoria di dipendenti (se non a tutti), sono esentasse e non concorrono a formare reddito da lavoro dipendente. Abbiamo già parlato di alcune soluzioni come, ad esempio, l’asilo nido oppure la possibilità di offrire gratuitamente delle polizze di assicurazioni sanitarie e di integrare ulteriormente la previdenza con prodotti complementari. C’è poi la possibilità di effettuare un rimborso spese per i costi da sostenere per raggiungere la sede dell’attività e tanto altro. I vantaggi del welfare aziendale La domanda che certamente ti stai ponendo è: quali sono i reali vantaggi del welfare aziendale per la tua impresa? Un primo aspetto a cui abbiamo già annunciato, riguarda il fatto che un dipendente premiato dalla propria azienda è portato ad essere più affidabile e produttivo e questo significa migliorare la qualità dei servizi ai prodotti che offri ai tuoi clienti. In aggiunta se i tuoi dipendenti si trovano bene con la tua politica, questo sarà il miglior biglietto da visita per poter attrarre nuove risorse umane che potrebbero permetterti di fare un ulteriore salto di qualità per migliorare ulteriormente la tua presenza sul mercato e staccare i tuoi competitor. Ne beneficerà anche l’immagine dell’azienda che verrà vista con altri occhi anche dai potenziali clienti che la prenderanno in considerazione più seriamente per le proprie esigenze. Insomma, investire su un piano di welfare aziendale ti permette di migliorare l’ambiente lavorativo, creare armonia con i tuoi dipendenti e aumentare la visibilità e competitività sul mercato di riferimento.

Rimborsi spese: cosa sono e come funzionano

Da un punto di vista prettamente tecnico si parla di rimborsi spese quando c’è un ulteriore contributo di natura economica messo a disposizione in busta paga dal datore di lavoro a un proprio dipendente per una trasferta oppure per altre spese che lo stesso lavoratore ha dovuto sostenere per espletare l’attività. Sono previste tre diverse tipologie di rimborso spese in particolare quella analitica, forfettaria e mista. La scelta della tipologia è a totale discrezione dell’azienda. In funzione di questo, c’è anche da tenere conto di una specifica tassazione e della possibilità di portare in deduzione i costi. Per potersi occupare al meglio del bilancio di un’attività d’impresa, è dunque indispensabile conoscere nei minimi dettagli tutto quello che riguarda i rimborsi spesa e il loro funzionamento. Infatti, essendo dei costi, necessariamente andranno a incidere sul bilancio mensile e su quello annuale di una azienda. Ci sono delle questioni di natura normativa che devono essere rispettate e l’erogazione deve avvenire in determinate condizioni soprattutto se ci sono lavoratori che svolgono la propria attività normalmente al di fuori della sede aziendale. Come funzionano i rimborsi spese Per gestire correttamente i rimborsi spese, è indispensabile capirne il funzionamento. Parliamo di un qualcosa che è legato all’attività lavorativa che il dipendente gestisce al di fuori della sede aziendale o, per meglio dire, in trasferta. Semplicemente si parla di trasferta quando il lavoratore svolge l’attività professionale al di fuori della sede naturale. Non a caso quando si sottoscrive un contratto di lavoro con un’azienda, tra le varie questioni tecniche ed economiche riportate c’è anche la definizione in maniera precisa della sede lavorativa. In base all’indirizzo vengono considerate trasferte tutte quelle attività che vengono effettuate al di fuori di tale sede. Può succedere anche che nel contratto non venga riportata la sede soprattutto se si svolge un ruolo che prevede l’esigenza di doversi recare in diverse sedi come quello dell’amministratore. In questo caso per stabilire se un dipendente ha diritto o meno a un rimborso spese, è necessario far riferimento al domicilio fiscale dell’azienda. In base a questo indirizzo viene calcolata la trasferta e quindi il rimborso. Le spese che possono essere rimborsate Siccome si parla di rimborso, è previsto che il dipendente sostenga delle spese durante l’espletamento dell’attività al di fuori della sede aziendale e che queste poi vengono elargite dall’azienda stessa attraverso la busta paga. Tuttavia, c’è una disciplina che regola le tipologie di spese che possono essere rimborsate e che sono quindi attinenti all’attività. Parliamo di una compensazione economica a favore del dipendente che può essere prevista soltanto se ci sono delle specifiche esigenze. In particolare, il rimborso è previsto per i costi sostenuti per il carburante, per trovare e godere di una sistemazione che permetta vitto e alloggio. Poi ci sono i pedaggi autostradali ed eventualmente anche il noleggio dei veicoli che nella stragrande maggioranza dei casi viene presa in considerazione da un’azienda a meno che non si disponga di un veicolo aziendale. Possono essere contemplate anche spese necessarie per la gestione dell’utilizzo del veicolo ma anche per acquisti che vengono effettuati in trasferta e sempre collegabili all’attività che si sta svolgendo. Insomma, una situazione che può differire da caso a caso ed è per questo che non c’è stata una standardizzazione dei rimborsi spesa soprattutto per quanto concerne il tetto massimo che per legge non c’è. Chiaramente un’azienda non può permettersi di effettuare spese illimitate ma deve comunque fissare un budget da mettere a disposizione al proprio dipendente per non sforare determinati paletti. Le differenze tra le varie tipologie di rimborso spese Ci sono diverse questioni da affrontare che riguardano il rimborso spese e che lo rendono meno banale di quanto si possa pensare. Essendo un’aggiunta allo stipendio, c’è un surplus sulla busta paga che risulterà più alta. Ma come si gestisce il tutto da un punto di vista fiscale? In primo luogo, bisogna distinguere tra due situazioni. La prima riguarda i rimborsi per le trasferte che vengono effettuate all’interno del territorio comunale e la seconda rispetto alle trasferte al di fuori della zona comunale. Nel primo caso le spese rimborsate contribuiranno ai fini fiscali a fare cumulo sul reddito imponibile per cui bisognerà dichiararle e pagare le relative tasse. Invece, quando si tratta di rimborsi che sono stati previsti per l’attività che viene effettuata al di fuori dal territorio comunale, queste sono esenti fiscalmente entro determinati limiti. L’impresa può scegliere tra diverse soluzioni per gestire il rimborso e in particolare pensare al rimborso spese analitico, a quello forfettario oppure al sistema misto. Il rimborso spese analitico È un sistema molto utilizzato perché si basa semplicemente sul concetto che per ottenere il rimborso, il dipendente deve presentare dei documenti fiscali che attestino la spesa sostenuta. Nel caso specifico deve compilare la nota spese per riportare i vari esborsi e soprattutto le causali. Per giustificare le spese, possono essere allegate le fatture elettroniche intestate al lavoratore oppure all’azienda, le ricevute che fanno riferimento alle spese sostenute per il vitto e l’alloggio oppure i biglietti per utilizzare trasporti pubblici. Naturalmente rientra nella documentazione anche lo scontrino, le ricevute per il carburante ma anche pedaggi autostradali e altre tipologie di documenti fiscali che sono collegati ai costi sostenuti per espletare l’attività. Le aziende scelgono spesso questo sistema perché gli importi non sono imponibili. Infatti, come abbiamo detto, tutte le spese effettuate per spostarsi al di fuori del comune in cui ha sede l’azienda e per il vitto e l’alloggio, per tante altre persone non fanno cumulo in termini di reddito imponibile. Se invece si tratta di spese non documentate, allora il rimborso è ugualmente previsto con un limite giornaliero di deduzione fiscale che attualmente è di 15,49 euro per le trasferte all’interno del territorio nazionale e di 25,82 euro per quelle al di fuori dei confini italiani. Il sistema forfettario Come si può facilmente evincere dal nome, si tratta di un pagamento che il datore di lavoro effettua attraverso una somma a forfait che viene pattuita prima della trasferta. Il calcolo viene effettuato giornalmente

Knowledge management: cos’è è perché è importante

Per crescere le aziende devono acquisire, archiviare, condividere e gestire efficacemente dati e informazioni al fine di centrare l’obiettivo prefissato. Fare in modo che i dipendenti possano accedere facilmente al fattore conoscenza, li rende maggiormente produttivi con conseguenti benefici dell’azienda stessa. Questo aspetto dell’organizzazione aziendale prende il nome di knowledge management, cioè gestione della conoscenza. A tale proposito vediamo cos’è, perché è importante e quali vantaggi concreti può offrire. Cos’è il knowledge management? Il knowledge management può essere definito un processo di incremento, organizzazione e di totale condivisione della conoscenza da parte di membri di un’azienda al fine di renderla competitiva e in grado di incrementare gli utili. Il knowledge management si rivela prezioso poiché permette di fornire al personale di un’azienda le giuste informazioni in modo che possa agire in sinergia, avvalendosi delle tecnologie più innovative. Condividere metodologie, know-how e strumenti permette ad un’azienda di performare nettamente meglio rispetto alle proprie concorrenti, abbattendo i tempi di onboarding e – tangenzialmente – migliorando anche il clima aziendale. L’informazione è potere e se vi è una asimmetria informativa all’interno dell’azienda, cioè l’informazione è nelle mani di alcuni, si prefigura un monopolio nella gestione dei processi. In questo modo alcune figure tengono in scacco l’azienda che diventa a quel punto succube del lavoratore che potrebbe da un lato dettare le “sue regole”, destabilizzando la struttura gerarchica, dall’altro potrebbe mettere in pericolo l’azienda in caso di dimissioni. Perché il knowledge management aziendale si rivela importante? Approfondiamo questi vantaggi. Optare oggi per un knowledge management ben strutturato e implementato da persone esperte, significa ridurre costi e tempi lavorativi. Gestire efficacemente i dati e condividere metodologie di lavoro consente ad esempio ai team di prendere decisioni in modo più consapevole e rapido, riducendo significativamente i tempi di discussione e facendo in modo che – partendo da una base comune – anche la decisione sia maggiormente condivisa. Se poi alla metodologia, si associa un vero e proprio software di knowledge management i vantaggi aumentano in maniera esponenziale. Diventa possibile ottenere per un’azienda una migliore visione analitica a riguardo di vari problemi, minimizzando di gran lunga gli errori specie quando il numero di dati è ampio. Per fare qualche esempio – un software di knowledge management consente di ottenere informazioni automatizzate e molto più accurate, anche se i dati posseduti sono tantissimi e magari accorpati in testi, pagine web, e-mail oppure inseriti in software e difficilmente rintracciabili manualmente. In questo frangente è sufficiente soltanto utilizzare una parola chiave per filtrare tutte le informazioni fino a raggiungere quella di maggior rilevanza. Un altro valido motivo per cui vale la pena considerare l’implementazione di un software per il processo di knowledge management, è riscontrabile nel fatto che quest’ultimo consente ad un’azienda di gestire le informazioni in modo più rapido e innovativo con conseguenti vantaggi per l’attività che svolge. Presupposti per un buon knowledge management Per implementare efficacemente il knowledge management e sfruttarne gli aspetti strategici che garantisce, è tuttavia importante intervenire a monte su alcuni fattori; infatti, deve essere strutturato sull’effettiva consistenza dei processi aziendali e degli obiettivi che si intendono raggiungere e soprattutto individuare quelli in grado di fornire l’ambito successo. Il knowledge management è una tecnologia che consente di eseguire un processo analitico ed ottimizzato a tutte le aziende che intendono gestire un gran numero di informazioni e dati. Per sfruttarlo al meglio è quindi fondamentale affidarsi nelle mani di esperti del settore, ossia ai knowledge manager. Questi ultimi saranno in grado di definire strumenti e strategie vincenti per la condivisione di know-how, metodologie e dati – che si tratti di mail, database e via dicendo.

Come funziona la fatturazione elettronica?

In questo articolo andremo ad affrontare il tema di come funziona la fatturazione elettronica, uno strumento che diventerà di fondamentale importanza per digitalizzare i processi di business e non sarà, come tanti pensano, solamente uno scambio di documenti tra pubblica amministrazione e aziende private. In Italia l’introduzione della fatturazione elettronica obbligatoria ha di fatto rappresentato una discontinuità non indifferente negli ultimi anni per pubbliche amministrazioni, liberi professionisti, imprese e studi professionali. In special modo per le organizzazioni di tipo più strutturato, l’utilizzo di piattaforme e di nuovi procedimenti per una corretta gestione delle fatture elettroniche ha di fatto comportato il primo grande passo verso la digitalizzazione dei processi. L’obbligo di dover conformare uno dei procedimenti interni più complessi ha consentito a molti di poter toccare con mano i numerosi benefici che derivano dalla dematerializzazione, si è così andato a creare una sorta di circolo virtuoso che gradualmente sta estendendo questi vantaggi a molti degli altri compiti che si muovono sulla catena del valore. Ma esattamente in cosa consiste la fatturazione elettronica, come funziona e quali sono gli strumenti necessari per utilizzarla nel modo corretto? Fatturazione elettronica: cos’è e a cosa serve Partiamo quindi con lo spiegare cos’è la fatturazione elettronica, vedremo poi a cosa serve nel concreto. Possiamo definire la fatturazione elettronica come un insieme di tecnologie, processi e strumenti che ci consentono di ricevere, emettere e registrare documenti di tipo commerciale, per essere più specifici storni e fatture, in formato digitale, quindi senza utilizzare carta, archivi fisici e servizi di spedizione. La creazione dei documenti avviene direttamente su dispositivi elettronici, quindi smartphone, PC o qualsiasi altro device, a patto che ci sia un collegamento internet, attraverso moduli funzionali o programmi appositi integrati nella suite di produttività oppure nei gestionali ERP. Il documento viene quindi trasmesso attraverso linguaggio digitale al destinatario che dopo averlo visionato può salvarlo direttamente nel proprio database senza doverlo stampare. In Italia ogni fattura elettronica viene compilata usando il formato XML, che le consente di passare dal Sistema di Interscambio, SDI, una piattaforma che l’Agenzia delle Entrate gestisce direttamente e che è in grado di registrare ogni flusso commerciale attivo tra le aziende private e tra pubblica amministrazione e imprese. La ricezione e l’invio di documenti di acquisto e di vendita è quindi mediata e, per poter accedere allo SDI è indispensabile ricorrere a un provider. L’obiettivo generale della fatturazione elettronica è quindi quello di semplificare le procedure dei rapporti economici tra soggetti privati e pubblici al fine di ottenere trasparenza, monitorare, rendicontare la spesa pubblica e ottenere un controllo efficace del valore che generano le imprese ai fini fiscali. Inoltre, la fatturazione elettronica rappresenta un importante settore di sviluppo tra quelli tenuti in considerazione dall’Agenzia Digitale, sia italiana che europea e, come già detto, gioca un ruolo essenziale nella trasformazione digitale delle organizzazioni. Per chi è obbligatoria la fatturazione elettronica? In Italia la fatturazione elettronica è stata introdotta gradualmente a partire dal 6/06/2014. A partire da questa data, infatti, chiunque forniva prestazioni ad agenzie fiscali, enti nazionali di assistenza e previdenza sociale e ministeri doveva utilizzare il formato digitale, iniziando a gettare le basi a un cambiamento che nel giro di poco tempo è stato preso in considerazione da altri soggetti economici. Dal 1/01/2019 la fattura elettronica diventa obbligatoria anche tra privati, in caso di prestazioni di servizi o cessione di beni tra soggetti stabiliti o residenti in Italia. Per i contribuenti che utilizzavano il regime forfettario l’obbligo è scattato l’01/07/2022, sono esentati fino al 01/01/2024 solo quei soggetti che l’anno precedente ha avuto compensi o ricavi non superiori ai 25.000 euro. Fatturazione elettronica: dove si fa, modalità e software Come già anticipato, per poter compilare una fattura elettronica è necessario avere un software che svolga la funzione di interfaccia con l’SDI. Tranquilli, niente di complicato, solitamente se si è in possesso di Partita Iva basta rivolgersi al proprio commercialista che solitamente mette a disposizione di tutti i suoi clienti la medesima piattaforma utilizzata dallo studio. Sarà quindi sufficiente fare il download, oppure utilizzarlo attraverso il browser web, e sarà possibile fin da subito ricevere e inviare fatture in formato elettronico dal proprio PC. L’alternativa è quella di rivolgersi ad alcuni provider certificati che danno la possibilità di avere strumenti su misura con la modalità Pay-Per-Use, cioè con canoni che si basano sul volume effettivo di documenti lavorati dalla piattaforma. Fatturazione elettronica semplificata: codice SDI Uno dei vantaggi offerti dall’SDI è quello di essere certi di inviare il documento corretto ad ogni destinatario. Ogni trasmissione è di fatto univoca e basata sull’utilizzo di codici, ognuno dei quali identifica un soggetto privato o una pubblica amministrazione. In realtà i codici riconosciuti dal Sistema di Interscambio sono due. Il primo è il CUU, Codice Univoco d’Ufficio, anche detto IPA, Indice Pubblica Amministrazione. Il CUU permette all’SDI l’individuazione dell’ente pubblico o ufficio nello specifico al quale è destinato il documento. Per sapere il CUU al quale inviare la fattura elettronica basta andare sul portale IPA dove si trovano tutte le informazioni riguardanti le varie istituzioni locali o centrali come PEC, dominio digitale e appunto il CUU. Il secondo viene chiamato codice destinatario, ha la stessa identica funzione del primo ma è riservato alla fatturazione di tipo B2B, cioè che avviene tra soggetti di tipo privato. L’unica piccola differenza tra questi due codici sta nel numero di caratteri, il CUU ne prevede sei, mentre il codice destinatario ne ha sette. Mini guida su come funziona e come fare una fattura elettronica Dopo aver visto le informazioni necessarie a comprendere cos’è e come funziona la fatturazione elettronica passiamo alla pratica. Come si compila una fattura elettronica? Se la compilazione avviene manualmente la procedura non è differente dal metodo tradizionale. Basterà aprire l’anagrafica cliente, selezionare l’ente privato o pubblico oppure l’azienda a cui si deve inviare la fattura. Il gestionale in automatico accederà a tutti i dati precedentemente caricati e metterà in evidenza tutte le informazioni del contatto prescelto a partire, se si tratta di fatture B2B o B2G, con

Whistleblowing: cos’è e perché è importante

Il whistleblowing è la segnalazione di attività illecite o irregolarità sul luogo di lavoro, fatta da un dipendente o collaboratore che vuole far emergere problemi di interesse pubblico o violazioni al codice etico aziendale. In particolare, il whistleblower è colui che riferisce a figure competenti all’interno dell’organizzazione (es. compliance officer, internal audit) oppure anche ad autorità esterne, condotte che rappresentano un rischio o un danno per l’integrità dell’ente. Lo scopo di questa pratica è quello di favorire la trasparenza e la legalità, consentendo di portare alla luce situazioni critiche che potrebbero non emergere altrimenti. Per questo molti paesi stanno cercando di regolamentare e proteggere legalmente questa pratica, evitando che chi segnala subisca ritorsioni ingiuste. Il whistleblowing in Italia è attualmente un tema scottante e di grande attualità. La recente direttiva europea 2019/1937 impone a tutti gli Stati membri di dotarsi di una legislazione adeguata a proteggere chi segnala illeciti sul posto di lavoro. Senza contare che un efficace sistema di whistleblowing porta enormi benefici alle aziende, ai lavoratori e alla società. Proteggere chi segnala irregolarità in buona fede è fondamentale per far emergere situazioni critiche che altrimenti resterebbero nascoste. In poche parole, dotarsi di procedure adeguate conviene a tutti. Vediamo cosa prevede la normativa, quali sono i rischi del ritardo italiano, e soprattutto cosa puoi fare per contribuire ad un cambiamento culturale su un tema così delicato e importante. La direttiva UE 2019/1937 La direttiva citata nel titolo del paragrafo, sulla protezione dei whistleblower è entrata in vigore nel dicembre 2019. Gli Stati membri avevano tempo fino al 2021 per recepirla all’interno delle rispettive legislazioni nazionali. L’Italia si è mossa con un certo ritardo, ma da luglio 2023 ha finalmente introdotto delle regole in materia, per le aziende a partire da 50 dipendenti. Questo passaggio è fondamentale e strategico: garantire un ambiente di lavoro trasparente e sicuro conviene prima di tutto a te e al tuo business. Proteggere i dati personali di chi segnala La direttiva UE richiede massima attenzione alla protezione dei dati personali di chi segnala irregolarità. Come azienda, devi garantire la massima riservatezza su identità e contenuto delle segnalazioni ricevute. In Italia, il Garante per la privacy ha già cominciato a sanzionare duramente le aziende che violano la privacy di segnalatori e segnalazioni con multe piuttosto salate.  Quindi fai molta attenzione a gestire questi dati con protocolli sicuri e criptati. Scegli un software whistleblowing che protegga l’anonimato end-to-end. Non mettere a rischio la tua azienda con comportamenti superficiali su un tema così delicato. Pianificare adeguatamente l’implementazione Non puoi improvvisare su una materia complessa come questa. Devi pianificare con cura l’introduzione di nuove procedure e sistemi di segnalazione interni. Innanzitutto, forma adeguatamente il personale coinvolto nella gestione delle segnalazioni. Poi, prevedi una campagna informativa per i dipendenti, spiegando con chiarezza il funzionamento del sistema e le garanzie offerte. Infine, monitora attentamente l’utilizzo della piattaforma, intervenendo prontamente se emergono criticità o dubbi. Ricorda: un sistema whistleblowing mal gestito può generare sfiducia e diffidenza tra i lavoratori. Cambiare mentalità sulla cultura della segnalazione Per introdurre in azienda un sistema di whistleblowing efficace, si deve prima procedere con un cambiamento culturale, devi favorire attivamente una nuova mentalità, che consideri il segnalare irregolarità non più come un tradimento ma come un dovere civico. Devi promuovere valori come trasparenza, integrità e senso di responsabilità tra i tuoi dipendenti. Devi far capire che la segnalazione è uno strumento di tutela dell’azienda stessa, non un attacco personale. Insomma, il tuo compito è creare un ambiente psicologicamente sicuro per chi vuole parlare. Il successo di questo sistema dipende in gran parte da questo cambiamento culturale. Quindi dedicaci tempo e impegno fin da subito. Benefici di un sistema efficace Introdurre un sistema efficiente e ben gestito porta enormi benefici all’azienda. Insomma: proteggere chi segnala conviene sotto tutti i punti di vista. Piattaforme per la gestione del whistleblowing Per gestire in modo efficace le segnalazioni, devi dotarti di uno strumento tecnologico adeguato. La soluzione migliore è scegliere una piattaforma whistleblowing sviluppata da un fornitore qualificato e con esperienza specifica. Evita soluzioni improvvisate o fai-da-te. Affidati a specialisti del settore, che sapranno consigliarti la migliore configurazione in base alle tue esigenze specifiche. È un investimento importante che ti proteggerà nel lungo periodo. Puntare sulla piena conformità Quando implementi un sistema di whistleblowing è fondamentale garantire la piena conformità a tutti i requisiti normativi previsti dalla direttiva UE. Devi assicurarti che la piattaforma prescelta sia stata progettata specificamente per rispettare ogni dettaglio richiesto dalle nuove regole europee. Non accontentarti di soluzioni generiche o parziali. La conformità totale è garanzia di tutela legale per te e per l’azienda. Inoltre, ti mette al riparo da possibili sanzioni delle autorità di controllo. Insomma, meglio prevenire che curare! Se la tua azienda ha una struttura articolata, con diverse società controllate o collegate, è naturalmente necessario estendere il sistema whistleblowing a tutti i soggetti giuridici del gruppo. Oltre a diffondere la cultura dell’integrità in tutta l’organizzazione, accentrerai la gestione delle segnalazioni, con benefici in termini di efficienza, costi e sicurezza. Insomma, un’implementazione a livello di gruppo è la scelta migliore. In sintesi, l’introduzione di un sistema whistleblowing efficace e conforme alla normativa richiede impegno ma porta enormi vantaggi a lungo termine.

Che cos’è il modello dell’employee lifecycle e come può aiutarti a gestire meglio le risorse umane

Da sempre, creare contesto positivo che valorizzi le singole qualità di un dipendente è la chiave per aumentare la sua produttività e la fedeltà a quella determinata azienda: questo è un principio cardine dei professionisti delle risorse umane, i quali considerano i dipendenti non solo come uomini o forza-lavoro, ma come delle vere e proprie risorse da coltivare durante il loro ciclo di vita lavorativa. Per questo motivo, negli ultimi anni, si è consolidato un modello finalizzato proprio al raggiungimento di questo scopo: esso prende il nome di Employee Life Cycle (ELC). Employee Life Cycle: di cosa si tratta? Innanzitutto, è opportuno chiarire l’esatta definizione del modello Employee Life Cycle: esso non è altro che uno strumento volto a tracciare la cosiddetta vita lavorativa di un dipendente, nonché il suo gradimento in base alla sua Employee Experience. Ovviamente, la maggior parte delle aziende che si rispettino fanno di tutto per garantire ad ogni dipendente un coinvolgimento pressoché totale in tutte la attività aziendali e in quella che è la cultura dell’azienda, in modo tale da far sì che egli possa esprimere tutto il suo potenziale incanalandolo nelle attività produttive. È proprio qui che l’ELC interviene, mappando questo percorso e evidenziando eventuali problematiche occorse al dipendente, le diverse opportunità di crescita rimaste ancora inespresse e il suo impatto emotivo su eventuali cambiamenti aziendali effettuati. Inoltre, il modello Employee Life Cycle mira anche a capire quanto effettivo impegno il dipendente metta nelle sue attività lavorative o quanto si senta coinvolto nel contesto aziendale. Insomma, l’ELC è una sorta di mappa che delinea il percorso di vita lavorativa del singolo dipendente, strumento utilissimo per la gestione delle risorse umane. Employee Life Cycle: il funzionamento e l’importanza di investirci Dietro al modello ELC vi è un principio molto semplice ma al contempo fondamentale: il bagaglio di esperienza costruito negli anni dal dipendente ha il medesimo valore di quello del cliente che si rivolge a tale azienda. Ciò vuol dire che avere la stessa cura per migliorare il più possibile l’Employee Experience di quella che si dimostra nel favorire la Customer Experience dei clienti maggiormente fidelizzati si traduce in un incredibile aumento delle possibilità che il dipendente possa sentirsi coccolato e apprezzato nel contesto lavorativo, autostrada a quattro corsie verso l’espressione del suo massimo potenziale. A cosa porta un modello ELC ben costruito? Sicuramente ad una drastica riduzione del turnover, dato che i talenti migliori di un’azienda saranno portati a non abbandonarla tanto facilmente ma a creare con essa un rapporto di lavoro ben saldo e duraturo. Inoltre, anche l’immagine stessa dell’azienda verrà migliorata, dato che il trattamento riservato ai dipendenti grazie all’Employee Life Cycle si distinguerà dai competitors e potrà spingere altri lavoratori ad unirsi al personale. Senza ombra di dubbio, costruire una reputazione che venga notata dal pubblico è un’operazione molto complessa e delicata: ecco perché i professionisti delle risorse umane iniziano a ricorrere all’Employee Life Cycle puntando dapprima sui talenti che sono già parte dell’organico aziendale. Più un dipendente è soddisfatto, maggiori saranno le possibilità che in futuro dimostrerà lealtà all’azienda: questo potrebbe rendere tale dipendente un promoter interno all’azienda, una risorsa in grado di richiamare altri talenti ad associarsi allo staff. Questo processo, a lungo andare, potrebbe rendere superfluo acquisire nuove risorse necessitanti di un periodo di formazione e di un più o meno lungo lasso di tempo prima di esprimere il loro potenziale: il talento si trova già in casa ed è pronto per essere utilizzato come una risorsa preziosissima. Le fasi della vita lavorativa di un dipendente Il modello dell’Employee Life Cycle considera la vita lavorativa di un dipendente come un insieme di 7 fasi ben delineate, ognuna delle quali prevede delle sessioni a cadenza regolare di feedback col dipendente, finalizzate ad acquisire informazioni sul suo grado di soddisfazione e sulla fedeltà all’azienda.Esaminiamo ciascuna fase in modo dettagliato e approfondito! Fase 1: Attraction Marketing La prima fase è quella dell’Attraction Marketing: di cosa si tratta? Sostanzialmente di un insieme di operazioni finalizzate a rendere il brand aziendale non solamente noto ai più, ma anche particolarmente attraente per altre risorse umane. La cosiddetta Brand Attraction, ossia il potere attrattivo dell’azienda in questione, è al giorno d’oggi un parametro fondamentale per richiamare i migliori talenti nel proprio personale. Configurarsi come un’azienda capace di elargire benefit al salario o extra ad ogni singolo dipendente è senza dubbio la chiave per costruire la giusta immagine dell’azienda al pubblico e per attirare i migliori talenti non ancora espressi. Fase 2: Assunzione La costruzione del marchio aziendale non passa solamente dalla Brand Attraction, ma anche dalle modalità di assunzione utilizzate. Integrare nel già esistente personale aziendale delle nuove risorse umane dovrebbe essere un processo studiato e pianificato nel minimo dettaglio, dal modo in cui si scrive l’annuncio di lavoro al metodo di pubblicazione scelto. In questo, la cura del proprio sito web ufficiale è una delle chiavi per attirare i migliori talenti verso la propria azienda. In linea generale, tutto ciò che abbiamo descritto finora prende il nome di Employee Value Proposition, un modello che descrive un lavoro stimolante per il dipendente, un marchio aziendale dall’enorme potere attrattivo, una ricompensa salariale dotata di extra e benefits, un personale qualificato ma amichevole e numerose opzioni per gli scatti in carriera. Fase 3: Inserimento in azienda La semplice assunzione di una nuova risorsa umana non basta: è fondamentale agevolare il più possibile il suo inserimento in azienda per fargli esprimere tutto il suo potenziale. Per questo, i professionisti delle risorse umane focalizzano la loro attenzione sui primissimi giorni del nuovo dipendente, sulle prime settimane o, a volte, sui primi 6 mesi di lavoro. L’inserimento e la formazione della nuova risorsa devono essere altamente efficaci: ciò è possibile solo se si accompagna il dipendente durante le sue prime settimane di lavoro fino a quando egli non abbia instaurato un certo rapporto di confidenza con gli attrezzi del mestiere e fino a che egli non abbia costruito delle relazioni interpersonali importanti con gli altri elementi dello staff. Fase

Cosa sono le competenze trasversali (e perché è importante che i dipendenti le possiedano)

Le competenze trasversali, meglio conosciute come soft skills, rappresentano un elemento fondamentale nella differenziazione in campo lavorativo dei dipendenti. Si tratta di competenze che possono influenzare il successo di lavoratori e imprese. La transizione verso il digitale, poi, ha reso ancora più evidente e determinante il ruolo delle competenze trasversali. Per le aziende, il percorso verso una completa digitalizzazione non passa solamente attraverso le tecnologie, ma necessita anche di capacità di negoziazione, di relazione e di guida. Quest’ultimi aspetti, infatti, sono ancora più determinanti, perché alla base della trasformazione digitale c’è quella culturale. Le soft skills, quindi, rappresentano la spinta verso la digital transformation e in questo articolo analizzeremo, nello specifico, le loro caratteristiche principali e l’importanza, per i dipendenti, di possedere tali abilità. Quali sono le peculiarità delle competenze trasversali? Le soft skills rappresentano un insieme di tratti che compongono la personalità di una persona. Se le competenze tecniche si basano sulle informazioni e le conoscenze che si acquisiscono nel corso degli anni al fine di eseguire e portare a termine compiti differenti, le abilità trasversali si riferiscono agli atteggiamenti e alle abitudini che una persona assume quando si trova di fronte a varie situazioni all’interno del luogo di lavoro. Le aziende, a tal proposito, hanno alte aspettative e pretendono che i loro dipendenti, o coloro che si candidano a esserlo, possiedano delle caratteristiche personali forti e radicate. Ciò permette ai datori di lavoro di limitare l’impiego di risorse interne da destinare alla formazione, mentre i dipendenti faranno meno fatica nell’adattarsi al nuovo contesto lavorativo. Perché e quanto sono determinanti le soft skills nel mondo del lavoro? Le soft skills consentono a chi si occupa di recruiting di comprendere quanto un nuovo candidato sia adatto alla posizione ricercata all’interno dell’azienda. In alcuni contesti lavorativi, le competenze trasversali superano, per importanza, anche le informazioni contenute all’interno del Curriculum Vitae, di una lettera di presentazione o l’esito di un colloquio. Una delle capacità che un’azienda ricerca maggiormente in una persona da assumere, e che fa parte delle abilità trasversali, è la comunicazione. Saper comunicare in maniera eccellente e con successo con gli altri membri del team aziendale e con i manager significa riuscire a dare il proprio apporto in maniera efficace, contribuendo in modo determinante al successo di una realtà aziendale e del suo business. Sono così importanti, che le soft skills vengono ormai regolarmente inserite all’interno degli annunci di lavoro pubblicati dalle aziende. I candidati, infatti, hanno ormai compreso come sia determinante aggiungere tali informazioni nel loro CV ed elencarle durante un colloquio. A parità di formazione e di esperienza, un candidato può fare la differenza dimostrando di possedere le competenze trasversali che un’azienda sta cercando. Il ruolo determinante delle competenze trasversali per i datori di lavoro: perché possono fare la differenza? In piena era di trasformazione digitale, i datori di lavoro sono coscienti dell’importanza e del vantaggio di avere nel loro team dei dipendenti che dimostrano di possedere capacità di gestione di condizioni particolarmente delicate e di alta pressione. Una persona con queste caratteristiche, infatti, tende ad adattarsi molto più velocemente e facilmente a tutte le condizioni di lavoro, rispetto al resto dei dipendenti. Questo aspetto, come si accennava in precedenza, determina anche un beneficio economico per il datore di lavoro. Le aziende, infatti, risparmiano tempo e denaro da dedicare alla formazione di un neo assunto. Le soft skills e il loro ruolo chiave nell’ambito lavorativo: quali sono quelle più importanti? Appurato che le abilità trasversali rappresentano un vantaggio determinante sia per aziende che dipendenti, è lecito chiedersi quali siano le soft skills più importanti, che ogni dipendente dovrebbe imparare a padroneggiare per migliorare il proprio ruolo all’interno del contesto lavorativo o per agevolare il successo di ricerca di occupazione. Fatta questa doverosa premessa, analizziamo nel dettaglio quelle che vengono considerate, all’unanimità, le soft skills più determinanti. Comunicazione Riuscire a comunicare in modo efficace fa la differenza, sia nella vita di tutti giorni che sul posto di lavoro, dove si affrontano situazioni sempre diverse tra loro. Questa competenza, poi, è determinante anche durante la fase di ricerca di un posto di lavoro. Per riuscire a migliorare questa soft skills, occorre padroneggiare al meglio l’ascolto attivo, la fiducia e la risoluzione dei conflitti. Risoluzione dei problemi Tale abilità è una delle più apprezzate dai datori di lavoro e consente di distinguere quei dipendenti che sanno mettere in campo, in modo rapido ed efficace, le loro competenze e le conoscenze. Per svilupparla bisogna saper gestire al meglio il rischio e migliorare l’abilità di ricerca. Creatività I dipendenti dotati di una grande creatività, riescono a trovare sempre modi alternativi per portare a termine un compito, sviluppando anche nuove soluzioni per l’azienda. Chi vuole accrescere questa competenza deve dare sfogo alla curiosità, aprire la mente e spingersi a imparare dagli altri. Adattabilità Il mondo attuale e la trasformazione digitale ci pongono di fronte a continue evoluzioni. Negli ultimi anni, le aziende di tutto il mondo hanno dovuto affrontare cambiamenti epocali e radicali. Riuscire a raggiungere il successo, in questi casi, richiede il supporto di dipendenti dotati di competenza di adattamento ai cambiamenti. Etica del lavoro Le aziende gradiscono sempre collaborare con lavoratori dotati di una spiccata etica del lavoro, che siano aperti a imparare e siano caratterizzati da motivazione. Saper svolgere i compiti assegnati in modo rapido ed efficace apre le porte alla creazione di un rapporto positivo con il datore di lavoro e con i colleghi, anche quando non si è raggiunto il massimo della competenza tecnica. Per sviluppare al meglio questa abilità trasversale bisogna stare attenti ai dettagli ed essere tenaci. Competenze trasversali e formazione continua: perché è importante incentivarla?Per incoraggiare i dipendenti a intraprendere un percorso di potenziamento o di apprendimento delle soft skills, gli incentivi assumono un ruolo determinante. Negli ultimi anni, moltissime imprese hanno implementato dei premi con l’obiettivo di spingere i dipendenti a investire ulteriormente nell’accrescimento delle soft skills. Ma questo approccio, da solo, non è sufficiente. Infatti, una riqualificazione efficace delle abilità trasversali necessita di