Cos’è lo smart working

Nel rapporto BES dell’Istat che analizza i principali fenomeni economici, sociali e ambientali dell’Italia, si rileva che oltre 2,8 milioni di lavoratori hanno fatto ricorso allo smart working, soprattutto nella fascia di età compresa tra i 35-44 anni. Lo smart working è saltato agli onori della cronaca durante il periodo della pandemia da coronavirus, quando l’impossibilità di recarsi sul luogo di lavoro ha costretto molte aziende a rivoluzionare il proprio modo di lavorare e ad adottare nuove formule per consentire la prosecuzione delle attività. In questo articolo vedremo nel dettaglio cos’è lo smart working, quali sono le sue caratteristiche principali, il quadro normativo e quali vantaggi può apportare alle aziende e ai lavoratori. Cos’è lo smart working Lo smart working, che in italiano viene tradotto come “lavoro agile”, viene definita dal Ministero del Lavoro come “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa.”. Il lavoratore che è in smart working può svolgere le sue mansioni direttamente da casa o da qualsiasi altro luogo prescelto e negli orari che preferisce, rientrando sempre nel numero di ore previste dal proprio contratto lavorativo. Si tratta quindi di un cambiamento epocale, perché il lavoratore non ha l’obbligo di recarsi fisicamente presso la sede del lavoro e può organizzare la sua giornata in completa autonomia. Quando si parla di lavoro agile, bisogna sottolineare che il dipendente deve comunque raggiungere gli obiettivi o i risultati prefissati; quindi, non si tratta di un escamotage per lavorare di meno o rimanere a casa, ma solo di un sistema diverso per svolgere la propria professione. Lo smart working scardina il concetto tradizionale di lavoro dipendente che si basa sulla rigidità, sia di orari che di modalità di somministrazione, per introdurre un sistema più flessibile e indipendente. Durante la pandemia, si prediligeva che i lavoratori ove possibile lavorassero esclusivamente in smart working, ma al termine dell’emergenza si è optato per una modalità ibrida, che integra sia il vecchio lavoro in sede che quello da remoto. Sempre secondo i dati forniti dall’Istat, lo smart working è più diffuso tra le donne over 35 rispetto agli uomini della stessa fascia di età e riguarda soprattutto chi opera nel settore privato, rispetto ai professionisti impiegati nella pubblica amministrazione. Il settore dell’informatica, della comunicazione e della finanza sono quelli che impiegano di più lo smart working per i loro dipendenti, mentre si è registrato un calo nell’ambito dell’istruzione e dei servizi. Come funziona lo smart working Lo smart working, come abbiamo già sottolineato, non sostituisce il lavoro tradizionale ma lo amplia e lo integra, diventando un’opportunità per il dipendente e anche per il datore di lavoro. Pur non essendoci orari di lavoro fissi è sempre previsto che il lavoratore sia contattabile in alcune fasce orarie e che raggiunga i suoi obiettivi nei tempi prestabiliti. Per svolgere il lavoro agile è necessario utilizzare dei dispositivi digitali – computer, tablet e/o smartphone – che devono essere forniti dal datore di lavoro. Questa tipologia di lavoro prevede comunque dei doveri da parte del dipendente che possono riguardare gli obiettivi da raggiungere, il numero di ore settimanali e le responsabilità che derivano dal suo specifico incarico. Tutti i dipendenti che scelgono lo smart working invece del lavoro in sede hanno diritto alla medesima retribuzione, così come alle tutele in materia di salute e sicurezza prevista dalla normativa sul lavoro. Riferimenti normativi Spesso si pensa che il lavoro agile sia stato introdotto soltanto con l’arrivo dalla pandemia, ma in realtà si tratta di una modalità lavorativa già prevista nel 2017 con la legge n. 81 (articoli 18 -24) Con il mutare delle esigenze lavorative e la crescita dello smart working, le norme del 2017 sono state integrate e rinnovate con numerosi interventi legislativi, come il Decreto Ministeriale n. 149 del 22 agosto 2022 che precisa gli obblighi per il datore di lavoro (pubblico e privato) di comunicare sul portale Servizi Lavoro gli accordi previsti per lo smart working. Un altro passaggio fondamentale è il Protocollo Nazionale sul lavoro in modalità agile del settore privato, stipulato tra le parti sociali e il Ministero del Lavoro per stabilire modalità di accesso, diritti e doveri dei lavoratori agili. Fino a poco tempo fa, i dipendenti pubblici e privati potevano richiedere lo smart working se sussistevano alcuni presupposti: essere lavoratori fragili o avere figli under 14, ma dal 1° aprile 2024 è necessario stipulare preventivamente un accordo scritto tra dipendente e datore di lavoro. I vantaggi dello smart working per lavoratori e imprese Nonostante lo smart working abbia (come è normale) perso un po’ di terreno negli ultimi due anni, sono ancora tantissimi i lavoratori che operano con questa modalità e che la preferiscono al lavoro in sede, quindi vediamo insieme quali sono i vantaggi del lavoro agile. I vantaggi più evidenti riguardano sicuramente i lavoratori perché con lo smart working hanno la possibilità di gestire al meglio gli impegni lavorativi e familiari, senza dover sottostare alla rigidità degli orari previsti dalle imprese. Per chi deve raggiungere il lavoro con i mezzi pubblici o in auto, lo smart working abbatte i tempi per raggiungere il luogo di lavoro e al contempo permette di risparmiare sui costi di abbonamenti, carburante, pedaggi e manutenzione dell’auto. Organizzare il lavoro in autonomia accresce la responsabilità del lavoratore, che lavora in modo più efficiente e in base alle sue attitudini e ai suoi ritmi di lavoro. Con l’autonomia e la flessibilità del lavoro agile, il dipendente può beneficiare di maggiore tempo libero (si pensi ai pendolari) e ridurre drasticamente lo stress mentale e fisico. Lo smart working è la soluzione ideale per i neogenitori, che possono districarsi tra impegni lavorativi e familiari, senza essere costretti a lasciare il proprio impiego. Lo smart working offre dei vantaggi anche per le aziende, difatti si riducono i costi delle sedi

Gestire la flotta aziendale con file Excel: perché non dovresti farlo

Una gestione efficiente della flotta aziendale è una delle cose più importanti per un’attività che fa ampio utilizzo di mezzi a quattro ruote. Acquisire e tenere aggiornati costantemente i dati relativi ad ogni veicolo è infatti imprescindibile per ridurre gli sprechi e mantenere in buona condizione i propri veicoli. Tuttavia, per gestire decine di mezzi molte realtà utilizzano ancora i cari vecchi fogli Excel, che, per quanto versatili non sono uno strumento ideale allo scopo. In questo articolo vediamo quali sono le principali problematiche della gestione della flotta aziendale con file Excel. Limiti di Excel come strumento per la gestione. Gestire i dati rappresentativi della tua flotta tramite file Excel è un metodo, ancora oggi, piuttosto usato in diversi contesti lavorativi. Il motivo è semplice: Excel è uno strumento estremamente versatile, capace di gestire operazioni complesse e di esporre i dati in modo intuitivo. Tuttavia, Excel non è uno strumento pensato per il monitoraggio della flotta aziendale. In primo luogo, richiede che da parte dell’azienda ci sia la capacità di creare dei fogli Excel per monitorare tutti gli aspetti relativi ad un dato veicolo: chilometri, spese, scadenze, e disponibilità. Capire come strutturare dei file Excel in modo che siano facili da compilare, riutilizzabili e mantenibili (cosa succede quando si aggiunge un nuovo veicolo o se ne toglie uno?) non è un compito banale. In secondo luogo, Excel richiede un effort collaborativo non scontato: i fogli devono essere condivisi, e i dati aggiornati costantemente a mano (operazione nettamente più facile da computer che da telefono). Ciò significa che chi utilizza il mezzo deve accedere continuamente per aggiornare i dati e inserirli in modo corretto, spesso nel bel mezzo dell’attività lavorativa (es. un commerciale in visita da un cliente con l’auto aziendale). Di conseguenza è facile che si verifichino i seguenti problemi: E di fatto “gestire” la flotta aziendale, monitorando i costi e programmando budget, sarà praticamente impossibile. La soluzione: optare per un software per la gestione della flotta aziendale La gestione della flotta aziendale per mezzo di Excel è ancora un metodo di lavoro molto diffuso ma a fronte delle problematiche che abbiamo delineato sono sempre di più le aziende che stanno cambiando e passando a dei software ad hoc per la gestione della flotta aziendale. I software di gestione degli automezzi moderni possono sembrare apparentemente più costosi ma in realtà offrono un notevole risparmio a lunga scadenza. Vediamo i principali vantaggi. Usabilità Il primo e più banale dei vantaggi di un software ad hoc per la flotta aziendale è che nasce per svolgere questa mansione. Invece che n-mila fogli di calcolo condivisi, ogni utente (con il suo ruolo specifico e le sue credenziali) accedendo si ritrova davanti ad un pannello intuitivo da navigare dal quale può andare direttamente alla funzionalità di suo interesse. Condividere, aggiornare e caricare i dati – anche da mobile tramite un’app per mobile – sarà molto più facile e immediato. Scalabilità Il secondo vantaggio fondamentale è che questo genere di software nasce per essere scalabile: togliere un veicolo, aggiungerne uno nuovo, rimuovere o aggiungere utenti sono operazioni che non richiedono di ripensare l’architettura di complessi file Excel tra loro collegati, ma solo pochi clic Maggiori funzionalità Un software dedicato al monitoraggio del parco autoveicoli di un’azienda permette inoltre di mettere a disposizione degli utenti funzionalità che un file Excel semplicemente non può prevedere. Dall’allerta via mail delle scadenze legate al mezzo (bollo, assicurazione, tagliandi, revisioni) alla possibilità di segnalare in tempo reale guasti o malfunzionamenti via app, la rosa delle funzionalità di un software ad hoc è enormemente maggiore. Automazione Con il modulo GPS è inoltre possibile raccogliere dati in tempo reale e sincronizzarli con il sistema: posizione del mezzo, chilometri percorsi, in modo che il guidatore debba utilizzare l’app per inserire dati il meno possibile. Una gestione della flotta aziendale precisa e puntuale In breve, poiché i software per la gestione della flotta aziendale come CP Flotte nascono con uno scopo ben preciso, tramite essi è possibile controllare ogni veicolo senza complicati e confusi fogli di calcolo di Excel. I dati saranno aggiornati costantemente grazie agli automatismi, e ciò che non sarà possibile monitorare in modo automatico (es. i pieni carburante), sarà reso semplice da registrare attraverso app e webapp facili da utilizzare. Le scadenze – assicurazione, revisione, bollo, tagliandi – saranno sempre sotto controllo attraverso opzioni di notifica via mail agli utenti responsabili, e tutti i dati (storici e in tempo reale) saranno disponibili in delle dashboard facili da configurare e leggere. Potrai davvero avere dei dati precisi sulla tua flotta aziendale, e la licenza del software si ripagherà da sola grazie alle ore di tempo risparmiato e al budgeting migliore che potrai fare sulla base dei dati a tua disposizione.

Reclutamento interno: che cos’è e quali sono i vantaggi

Il reclutamento interno è una grande opportunità in ambito aziendale perché consiste nel trasferire o promuovere verso nuovi ruoli i lavoratori già in organico. Una pratica abbastanza diffusa per valorizzare al meglio le competenze e le esperienze delle risorse umane presenti in azienda. Ma in cosa consiste e quali sono i vantaggi del reclutamento interno? Reclutamento interno: cos’è In concreto, il reclutamento interno consiste nella promozione ai posti da coprire di dipendenti già occupati in azienda. Il reclutamento di nuovo personale sul mercato del lavoro – per quanto necessario – rappresenta una pratica dispendiosa e non sempre produttiva per un’azienda: bisogna cercare il profilo giusto, selezionarlo tra una rosa di candidati e quindi procedere al suo inserimento. Selezionando dipendenti direttamente all’interno della struttura organizzativa, vale a dire lavoratori dei quali conosci bene competenze ed esperienze e con i quali è già ben avviato un rapporto di reciproca fiducia, il processo di selezione e inserimento è infinitamente più rapido. Reclutamento interno: principali vantaggi I benefici principali derivanti dalla pratica del reclutamento interno sono i seguenti: Vantaggi dunque a tutto tondo: per i dipendenti, per il clima aziendale e per l’azienda stessa. Reclutamento interno: come funziona Per un processo interno di reclutamento vincente sono necessarie alcune accortezze. Sebbene ciascun ambiente di lavoro sia diverso dall’altro, alcuni passaggi sono comuni per tutte le aziende: Reclutamento interno: minori tempi e risorse da investire Con una procedura di selezione interna hai la possibilità di abbattere i tempi di selezione saltando alcuni passaggi, come la richiesta della documentazione di rito e il controllo delle competenze di base del ruolo da ricoprire, trattandosi di persone già interne all’organizzazione. Soprattutto, utilizzando il reclutamento interno, diventa più facile ridurre i costi per la ricerca e selezione proprio di quelle posizioni per cui i costi sarebbero più alti. Molto banalmente, è più semplice promuovere qualcuno già presente in azienda ad un ruolo di maggiore responsabilità e colmare il ruolo lasciato vacante, che cercare ex-novo qualcuno con tutte le competenze necessarie che possa svolgere quel ruolo, ma solo dopo un lungo inserimento in azienda.  A parità di competenze, il reclutamento interno ti permette di avere un processo di selezione più rapido – perché ti trovi a scegliere tra persone che già conosci e di cui ti fidi – e soprattutto un inserimento nettamente più veloce in azienda, perché la persona sarà produttiva molto prima rispetto ad un nuovo inserimento. E idealmente, colmare il posto lasciato vuoto dalla persona promossa sarà più facile, perché sarà richiesta meno esperienza e competenze. Reclutamento interno: i software HR Per dare seguito alla procedura di reclutamento interno puoi affidarti a dei software HR come CP Job e CP Recruit sviluppati da Gruppo Centro Paghe, supporti pratici e funzionali per la corretta e veloce gestione delle risorse umane. Con l’uso di questi software puoi:

Gruppo Centro Paghe, Siges e Rand Solutions: nasce nuova sinergia IT all’avanguardia.

Milano, 29 aprile 2024 – Gruppo Centro Paghe, azienda leader nello sviluppo di soluzioni software per aziende e risorse umane, e Gruppo Siges, leader nel settore delle soluzioni tecnologiche innovative per il mercato turistico, sanitario e delle risorse umane, hanno acquisito una quota significativa di Rand Solutions, realtà piemontese specializzata nello sviluppo di software avanzati, nelle soluzioni di monitoring e nella consulenza IT. Gruppo Centro Paghe e Gruppo Siges, acquisendo parte di Rand Solutions, espandono le proprie capacità di offrire ai propri clienti soluzioni IT all’avanguardia in qualsiasi settore. Nelle parole di Marco Gandola, CEO di Gruppo Siges: “Siamo entusiasti di accogliere Rand Solutions nella famiglia Gruppo Siges e del Gruppo Centro Paghe. Questa acquisizione rafforza la nostra posizione nel settore e ci consente di continuare a innovare e a fornire soluzioni di alta qualità ai nostri clienti.” La nuova sinergia tra Gruppo Centro Paghe, Gruppo Siges e Rand Solutions consentirà di rafforzare i rispettivi know-how in campo IT portando a soluzioni software ancora più complete ed efficienti per tutti i clienti.

Employer branding che cos’è

Trovare nuovi talenti che siano pronti a essere assunti o che abbiano le competenze giuste è davvero diventato un problema per molte aziende. Proprio per questo le più lungimiranti stanno ricorrendo sempre più all’employer branding, una strategia per attirare i lavoratori e ridurre i costi di ricerca e selezione. Vediamo di che cosa si tratta. Che cos’è l’employer branding L’employer branding raggruppa tutte le tattiche che un’azienda può adottare per migliorare la visibilità e la reputazione e attirare nuovi talenti. La locuzione “employer branding” è stata introdotta nei primi anni Novanta e indica la reputazione che un’azienda è in grado di costruirsi come datore di lavoro. Se un tempo le strategie per affermarsi come buon datore di lavoro erano confinate al passaparola o alla pubblicità cartacea, con l’avvento del digitale si sono moltiplicati gli strumenti per accrescere la visibilità e la reputazione e con ciò attirare nuovi talenti. Vi sono due tipi di employer branding: Presentarsi come un buon datore di lavoro ha il pregio di attrarre nuovi lavoratori e al contempo di fidelizzare chi già si trova all’interno dell’azienda. Ma attenzione: quando si implementa una strategia di employer branding non bisogna solo fare promesse; bisogna attuare davvero quello che i futuri dipendenti si aspettano dalla tua attività. Employee value proposition: la proposta di valore della tua azienda Prima di adottare qualsiasi tipo di strategia di employer branding per distinguersi dagli altri competitor è opportuno stabilire in anticipo l’employee value proposition. Definire un’employee value proposition significa stabilire cosa offre l’azienda ai futuri candidati in cambio delle loro abilità e competenze. È l’insieme di fattori che dovrebbero spingere un lavoratore a desiderare di lavorare per noi, piuttosto che per la concorrenza. Il welfare aziendale rappresenta sicuramente una carta da giocare in questo senso. Ad esempio, nella proposta di valore si potrà stabilire un benefit per chi è disposto alle trasferte di lavoro, voucher per baby-sitter, buoni pasto, buoni acquisto, telefoni e computer aziendali, e via dicendo. L’employee value proposition è quindi il primo passo e solo quando sarà completa e chiara, si potranno realizzare tutte quelle strategie che mirano al miglioramento della visibilità e della reputazione del datore di lavoro. La comunicazione multicanale Il secondo step per pianificare la tua strategia di employer branding esterna è più lunga e complessa e si focalizza sulla comunicazione, utilizzando diversi strumenti e canali. Per le multinazionali più conosciute e apprezzate è sicuramente più semplice attrarre nuovi candidati, ma se sei il titolare di una piccola impresa e non riesci a trovare dei dipendenti devi assolutamente farti conoscere e quale migliore strumento se non il web? Per aumentare la tua visibilità puoi iniziare da una campagna di comunicazione capillare che si concentri su: Tutti i canali di comunicazione che ti abbiamo sopraelencato svolgono una duplice funzione: permetterti di aumentare la tua visibilità e al contempo accrescere la tua reputazione. Se pianifichi una buona strategia comunicativa, l’esito sarà sicuramente positivo in termini di attrazione di nuovi talenti, ma avrà anche ottimi sviluppi positivi sul tuo brand, come l’aumento dei clienti o la maggiore affidabilità per gli eventuali investitori. Quando parliamo di creare una strategia di comunicazione non ci riferiamo soltanto alla presenza sui siti web come Facebook, Linkedin, Indeed, Instagram, ecc., ma alla realizzazione di contenuti ad hoc che promuovono la tua employee value proposition. Ad esempio, su Linkedin vi è la possibilità di creare una vera e propria vetrina della tua attività dando spazio nel piano editoriale alle esperienze dei dipendenti. Sui più importanti siti di recruiting, le imprese possono creare delle pagine per attirare potenziali candidati, descrivendo nel dettaglio l’ambiente di lavoro, le possibilità di crescita, i benefit, le retribuzioni, la formazione e tutti gli altri aspetti che possono renderla appetibile e interessante. Eventi dal vivo e career day Per massimizzare i risultati della tua strategia di employer branding non devi usare esclusivamente il web, ma utilizzare anche i canali tradizionali che ti permettono di promuoverti come datore di lavoro e di conoscere dal vivo i potenziali candidati. Per attrarre nuovi candidati ti consigliamo di partecipare agli eventi di recruiting come i career day, dove potrai presentare il tuo business e incontrare i candidati per dei colloqui conoscitivi. Quando organizzi degli eventi o partecipi ai career day è importante che tu ti faccia accompagnare dai tuoi dipendenti, che sono il biglietto da visita migliore per la tua attività e che possono entrare subito in sintonia con i potenziali candidati. Le strategie che ti abbiamo indicato sono efficaci soprattutto per l’employer branding esterno, mentre per quello interno devi dimostrare di essere davvero un buon datore di lavoro, garantendo standard lavorativi elevati, sicurezza, stabilità e anche retribuzioni o benefit in linea con le capacità di ogni dipendente. A tutto il resto ci penserà il passaparola! I vantaggi dell’employer branding Ora che abbiamo visto come si può pianificare e realizzare una strategia di employer branding, vediamo quali sono i vantaggi che può portarti: Naturalmente, è fondamentale disporre di strumenti adatti per erogare ai dipendenti i benefit che gli stiamo promettendo e per gestire il pool di candidati alle posizioni lavorative. Servono dunque strumenti come piattaforme di welfare aziendale e software per la selezione del personale per gestire nel modo giusto i risvolti pratici. Creare una strategia di employer branding efficace può essere davvero difficile, ma nel lungo termine gioca un ruolo determinante nella sostenibilità della tua azienda.

Come funziona il congedo parentale?

Il congedo parentale è un periodo di astensione facoltativa dal lavoro concesso ai genitori per prendersi cura dei figli piccoli. Si tratta di una misura pensata per conciliare vita lavorativa e familiare, permettendo di dedicare tempo ed attenzioni alla crescita dei bambini nelle fasi iniziali senza contare che si riduce notevolmente lo stress e l’ansia dei neogenitori, fattori spesso collegati a un calo del rendimento professionale. In poche parole, il congedo parentale offre un sostegno fondamentale per bilanciare gli impegni genitoriali con quelli professionali. Quadro normativo di riferimento L’istituto del congedo parentale affonda le sue radici nella Legge 53/2000, poi integrata e ridefinita da altre disposizioni come il Testo Unico 151/2001 e i vari aggiornamenti apportati negli ultimi anni, tra cui spiccano la Riforma Fornero e il Decreto Legislativo 105/2022 che ne hanno ampliato diritti e tutele. Prima di tutto è da evidenziare come gli assi portanti del congedo siano stati preservati nel tempo: accessibilità per ogni figlio a prescindere dal loro numero, estensione anche ai padri lavoratori con mogli casalinghe o non coperte da tutela previdenziale, focus sull’importanza di un work-life balance a misura di famiglia. Destinatari e requisiti Lavoratori dipendenti Il congedo parentale spetta ai lavoratori dipendenti, sia a tempo determinato che indeterminato, purché vi sia un rapporto di lavoro attivo al momento della richiesta. La durata complessiva è di 9 mesi fra entrambi i genitori, di cui 3 mesi intrasferibili per ciascun genitore più ulteriori 3 mesi frazionabili tra madre e padre. L’indennità prevista è pari all’80% della retribuzione media giornaliera per 2 mesi (uno per genitore, non trasferibile) fino ai 6 anni di età del bambino e scende poi al 30% fino ai 12 anni. Lavoratori autonomi Anche i lavoratori autonomi hanno diritto al congedo parentale, ragion per cui risulta fondamentale informarsi per tempo sulle modalità di fruizione. È necessario astenersi effettivamente dal lavoro e dimostrare il versamento dei contributi Inps almeno per il mese precedente la richiesta. L’indennità ammonta al 30% della retribuzione convenzionale stabilita ogni anno dall’Inps in base alla categoria professionale. Modalità e tempistiche Durata Il congedo parentale può essere richiesto entro i 12 anni di vita del bambino. La durata complessiva è di 10 mesi conteggiando entrambi i genitori, estendibile a 11 mesi qualora il padre ne fruisca per almeno 3 mesi (anche in modo frazionato). Dal 2023, come accennato in precedenza, il limite massimo indennizzabile sale a 9 mesi contando sia i 3 mesi intrasferibili per ciascun genitore che i 3 mesi frazionabili fra entrambi. Frazionabilità Uno dei vantaggi del congedo parentale è l’elevata flessibilità. È possibile frazionare il periodo in giorni e ore. Le giornate di congedo vanno poi sommate al raggiungimento del limite convenzionale di 30 giorni. Superato il mese, si calcolano poi i mesi interi di congedo e i giorni residui. Questa modularità consente di venire incontro alle diverse necessità lavorative e familiari che possono emergere. Congedo parentale e altri istituti a confronto Differenze con maternità e paternità Mentre congedo parentale e paternità hanno natura facoltativa, il congedo di maternità è obbligatorio. Quest’ultimo garantisce 5 mesi complessivi di astensione fra gravidanza e post-parto, di cui 2 mesi precedenti la data presunta del parto e 3 successivi. L’indennità è pari all’80% della retribuzione, integrata al 100% da alcuni contratti collettivi. Il congedo di paternità obbligatorio ammonta invece a 10 giorni con retribuzione piena al 100%, con l’obiettivo di coinvolgere il padre fin dalle prime fasi di vita del neonato. Differenze con i permessi retribuiti I permessi retribuiti a ore previsti dalla Legge 53/2000 (Riposi giornalieri e congedi malattia per bambino) sono utilizzabili solo fino al primo anno di vita del bambino e non prevedono un’indennità economica ma la normale retribuzione. Si differenziano dunque per durata e natura del compenso. Senza contare che il congedo parentale consente periodi di assenza più lunghi e programmabili. Come richiedere il congedo Modulistica e documentazione necessaria La richiesta può essere inoltrata tramite il portale web dell’Inps, rivolgendosi a patronati o intermediari abilitati oppure chiamando il contact center dell’Istituto. Serviranno dati anagrafici propri e del figlio, oltre alla documentazione relativa al rapporto di lavoro attivo e al versamento dei contributi se lavoratori autonomi. Prima di tutto è fondamentale informare per iscritto il datore di lavoro della durata e modalità di fruizione scelte. La domanda va inviata prima dell’inizio del periodo di congedo richiesto. In caso di presentazione tardiva, l’indennità non verrà corrisposta per i giorni precedenti la data della richiesta ma solo a partire dal giorno di invio della stessa. Meglio dunque muoversi con un certo anticipo comunicando per tempo le proprie intenzioni al datore di lavoro. Gestione del congedo in azienda Impatti organizzativi La fruizione del congedo parentale può comportare un certo impatto organizzativo in azienda legato alla temporanea assenza di personale. Diventa quindi importante pianificare attentamente turni e attività, distribuendo diversamente i carichi di lavoro e valutando soluzioni quali straordinari, nuove assunzioni a termine o rimodulazione dei flussi produttivi. Buone pratiche di gestione delle risorse umane prevedono una programmazione tempestiva insieme al lavoratore, così da ridurre al minimo eventuali ricadute operative. Comunicazione con il lavoratore La chiave per gestire senza intoppi il congedo parentale risiede nel dialogo e nella collaborazione con il dipendente/collaboratore interessato. Ricevuta la comunicazione della volontà di avvalersi del diritto, il datore di lavoro è tenuto ad informare circa le modalità di fruizione e i limiti temporali previsti. Così come è fondamentale supportare il neogenitore sia prima che dopo il periodo di congedo, ad esempio garantendo una ripresa graduale dell’attività lavorativa senza eccessivi stress. Prospettive future Negli ultimi anni le politiche a favore della genitorialità e della conciliazione famiglia-lavoro hanno conosciuto una felice evoluzione. Il progressivo allungamento della durata dei congedi e l’aumento delle relative indennità economiche confermano l’impegno del legislatore verso una società più inclusiva, che non costringa a dolorose scelte fra carriera e maternità/paternità. Ci sono buoni motivi per ritenere che questo trend positivo non si esaurirà a breve ma anzi proseguirà con nuovi interventi volti a rafforzare i diritti di mamme e papà lavoratori. Ed è

Aspettativa non retribuita: che cos’è e come funziona

L’aspettativa non retribuita, talvolta chiamata anche congedo non retribuito, è un periodo di pausa dal lavoro durante il quale il dipendente si assenta senza percepire la retribuzione. Il lavoratore ne fa esplicita richiesta al datore per motivi personali previsti dalla normativa vigente e, nonostante l’assenza dal servizio, mantiene il proprio posto di lavoro e il rapporto di lavoro. La caratteristica principale sta nel fatto che il lavoratore non percepisce alcun compenso economico per tutta la durata dell’aspettativa. Quest’ultima si differenzia quindi nettamente dall’aspettativa retribuita, dove invece la retribuzione continua ad essere corrisposta anche in costanza di assenza dal lavoro.  In entrambe le situazioni il lavoratore ha comunque diritto alla conservazione del posto di lavoro per l’intero periodo di aspettativa richiesto. Ciò significa che il datore di lavoro non può licenziare il dipendente solamente perché si è assentato dal lavoro facendo ricorso all’istituto dell’aspettativa. Quando si può richiedere l’aspettativa non retribuita Le ragioni che consentono ai lavoratori dipendenti di richiedere periodi di aspettativa non retribuita sono diverse e ben specificate dalla legge. Analizziamo nel dettaglio i motivi più ricorrenti. Aspettativa non retribuita per gravi motivi familiari La legge 53/2000 e il decreto ministeriale 278/2000 riconoscono espressamente la possibilità per i lavoratori dipendenti di usufruire di periodi di aspettativa non retribuita per gravi motivi familiari. La durata massima complessiva è di 2 anni, anche frazionati, nell’intero arco della vita lavorativa. I gravi motivi familiari possono riguardare direttamente la persona del lavoratore oppure i suoi familiari e affini entro il terzo grado di parentela, come il coniuge, i figli, i genitori, i nonni, gli zii e via dicendo. Per familiari si intendono anche il convivente o il parte dell’unione civile, se la convivenza risulta da certificazione anagrafica. Le situazioni che vengono considerate “gravi motivi” sono ad esempio: l’assistenza per malattie o disabilità di un familiare, impegno a seguito del decesso di un congiunto, altre condizioni di grave disagio personale in cui versa il dipendente, ad eccezione della malattia. Aspettativa non retribuita per motivi personali Oltre ai gravi motivi familiari, si può ottenere l’aspettativa non retribuita anche per ragioni personali del lavoratore dipendente. Tali motivi però non devono riguardare situazioni di malattia o maternità, per le quali sono previsti specifici istituti e tutele. I motivi personali possono essere i più disparati: periodi di volontariato, attività formative extra-lavorative, situazioni di tossicodipendenza propria o di un familiare, ed altri motivi non meglio specificati rimessi alla discrezionalità del datore di lavoro. I contratti collettivi di settore possono anche prevedere ulteriori ipotesi tipiche di aspettativa non retribuita per esigenze del dipendente. Aspettativa non retribuita per tossicodipendenti e loro familiari Un caso specifico di aspettativa per motivi personali è quello riguardante i lavoratori affetti da tossicodipendenza e i loro familiari. L’articolo 124 del DPR 309/1990 consente infatti di ottenere periodi di aspettativa non retribuita, fino ad un massimo di 3 anni complessivi, al fine di partecipare a programmi terapeutici e riabilitativi organizzati presso i servizi sanitari delle ASL. Per avvalersi di questa particolare aspettativa è necessario che lo stato di tossicodipendenza sia stato accertato dal SERT competente. Anche in questo caso, i contratti collettivi possono prevedere requisiti o modalità specifiche di accesso all’aspettativa. Aspettativa per formazione professionale Un periodo di aspettativa non retribuita può inoltre essere richiesto, per una durata massima di 11 mesi complessivi, dai lavoratori con almeno 5 anni di anzianità in azienda per motivi di studio e formazione professionale. Nel dettaglio, i motivi validi per accedere all’aspettativa formativa sono: il completamento della scuola dell’obbligo, il conseguimento di un diploma di scuola superiore o di un titolo accademico, la partecipazione ad attività formative diverse da quelle eventualmente già finanziate dal datore di lavoro. Anche in questo caso, i contratti collettivi possono specificare le modalità di richiesta ed eventuali limiti numerici di dipendenti che possono simultaneamente avvalersi di questo tipo di aspettativa. Aspettativa per cariche pubbliche Una forma di aspettativa obbligatoria è quella prevista dalla Legge 300/1970 per i lavoratori del settore privato che vengono eletti a cariche politiche e pubbliche. Hanno quindi diritto all’aspettativa non retribuita per l’intera durata del mandato coloro che ricoprono, a titolo esemplificativo, le cariche di: Analogamente, anche i dipendenti nominati a ricoprire cariche in enti pubblici locali hanno diritto ad assentarsi dal lavoro per l’aspettativa. Aspettativa dal lavoro per cariche sindacali I lavoratori del settore privato investiti di cariche sindacali a livello provinciale o nazionale hanno diritto, per tutta la durata del loro mandato, ad assentarsi dal lavoro fruendo dell’aspettativa non retribuita. L’aspettativa può essere fruita anche in modalità frazionata, come confermato dalla Cassazione. Come richiedere l’aspettativa non retribuita Vediamo ora in dettaglio qual è l’iter da seguire per avanzare correttamente richiesta di aspettativa non retribuita al datore di lavoro. Il lavoratore interessato deve presentare formale domanda all’azienda, indirizzandola tipicamente all’ufficio personale o alle risorse umane. Nella richiesta vanno specificati tutti gli elementi essenziali, quali: Se previsto dal contratto collettivo applicabile, vanno seguite le particolari procedure stabilite da quest’ultimo. Ad esempio, in caso di gravi motivi familiari, il datore deve fornire riscontro entro 10 giorni, oppure entro 3 giorni per i casi urgenti. Documentazione necessaria Unitamente alla domanda va prodotta idonea documentazione che comprovi l’effettiva sussistenza della motivazione addotta. Ad esempio, per le aspettative familiari, certificati medici o di decesso. Per quelle formative, copia dell’iscrizione al corso di studi. Così da consentire al datore le necessarie verifiche. In mancanza di previsioni del contratto collettivo, il datore di lavoro deve in ogni caso rispondere per iscritto alla richiesta di aspettativa entro 10 giorni. Può rifiutare l’aspettativa solo per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Aspetti contrattuali e previdenziali Analizziamo ora quali sono le principali ricadute dell’aspettativa non retribuita su alcuni profili del rapporto di lavoro. Conservazione del posto di lavoro Come già accennato, per tutto il periodo di aspettativa non retribuita il lavoratore ha diritto alla conservazione del proprio posto di lavoro. Il datore di lavoro non può quindi licenziarlo per il semplice fatto che si è assentato fruendo dell’aspettativa. Divieto di svolgere altre attività lavorative In linea generale, durante l’aspettativa non

Che cos’è il TFR e come si calcola?

Il TFR, acronimo di Trattamento di Fine Rapporto, è una somma di denaro che il datore di lavoro deve corrispondere al lavoratore quando termina il rapporto di lavoro, sia per dimissioni che per licenziamento o pensionamento. Si tratta di una sorta di liquidazione differita e accantonata che matura ogni anno in proporzione alle mensilità effettivamente lavorate. Il TFR rappresenta quindi una gratifica, un premio consegnato al termine della collaborazione, ideale lasciapassare verso nuove opportunità. A differenza dello stipendio, che viene erogato mensilmente in busta paga, il TFR viene accantonato dall’azienda, capitalizzato e poi elargito in unica soluzione alla fine del percorso insieme. Differenza con lo stipendio Come accennato, il TFR si differenzia dallo stipendio per modalità di erogazione e funzione. Lo stipendio è la retribuzione mensile per la prestazione lavorativa effettuata, prevista dal contratto di assunzione. Viene corrisposto ogni mese insieme alla busta paga ed è composto dal salario base e da eventuali indennità, straordinari, bonus. Rappresenta il corrispettivo immediato che il dipendente riceve a fronte del lavoro svolto. Il TFR matura invece mese dopo mese, viene accantonato dall’azienda in un apposito fondo senza che il lavoratore ne possa disporre durante il rapporto di lavoro. Questo accantonamento progressivo formerà la somma finale che verrà elargita al termine del percorso condiviso. Si tratta quindi di uno strumento con finalità previdenziale, una ricompensa per gli anni al servizio dell’impresa, un sostegno economico per le possibili difficoltà iniziali nel “dopo”. Il classico regalo d’addio di fine collaborazione. Quando matura Il trattamento di fine rapporto inizia a maturare fin dal primo giorno di assunzione nella nuova azienda, indipendentemente dal tipo di contratto siglato. Che sia a tempo indeterminato, determinato, part-time o full-time, il diritto al TFR sorge immediatamente per il lavoratore a prescindere dalla durata prevista del rapporto, proprio a tutela del dipendente considerato parte debole del contratto. L’accantonamento concreto e la sua rivalutazione avvengono in parallelo per tutta la durata effettiva della collaborazione professionale, solo alla fine verrà determinato l’ammontare spettante complessivo di cui il lavoratore potrà beneficiare. Non esiste quindi un periodo minimo di lavoro richiesto affinché scatti il beneficio del trattamento di fine rapporto, è sufficiente l’instaurazione del vincolo contrattuale. È pur vero che la somma accantonata nei primi mesi di collaborazione risulterà proporzionalmente più bassa rispetto a quella di un dipendente con maggiore anzianità. Sicuramente le mensilità iniziali, come accade per ogni percorso che si rispetti, sono quelle di rodaggio, necessarie per cementare i rapporti e acquisire dimestichezza con i ritmi e le modalità specifiche dell’azienda. Ma già in questa fase embrionale ha inizio, come un piccolo seme, quella riserva economica destinata a crescere mese dopo mese. Retribuzione di riferimento Il calcolo del trattamento di fine rapporto parte da un elemento fondamentale: la retribuzione annua di riferimento. Questa altro non è che una retribuzione teorica e convenzionale definita dalla legge, utile per standardizzare e semplificare il computo del TFR spettante ai dipendenti. Viene infatti preso in considerazione lo stipendio lordo effettivamente percepito dal lavoratore nell’ultimo anno solare, a cui però vengono applicati dei correttivi. In particolare, vanno esclusi gli straordinari, le maggiorazioni per lavoro straordinario, notturno o festivo, le gratifiche una tantum non contrattualizzate, i rimborsi spese, i premi di risultato. Viceversa, vanno incluse nel calcolo usuali voci ricorrenti come la tredicesima mensilità, le ferie e i permessi retribuiti, gli scatti di anzianità, le indennità fisse previste per specifici ruoli. Il risultato è la definizione di una retribuzione lorda su base annuale “standard”, la stessa presa a riferimento dall’Inps per il calcolo dei contributi previdenziali. Questa retribuzione teorica annua di riferimento costituisce la base su cui applicare le aliquote previste dalla normativa per determinare l’accantonamento concreto. Un parametro astratto ma funzionale a garantire omogeneità di trattamento e a evitare interpretazioni discordanti. Ipotizzando 30000 euro di retribuzione lorda standard annua, si applicherà su questo importo la percentuale di accantonamento prevista. Aliquote L’aliquota di accantonamento del TFR altro non è che la percentuale applicata ogni anno alla retribuzione annua lorda convenzionale per determinare l’effettivo accantonamento. Si tratta di una percentuale definita per legge che varia in base agli anni di anzianità aziendale del lavoratore. In particolare, per i primi due anni di rapporto di lavoro l’aliquota è pari al 6,91% della retribuzione annua di riferimento. Dal terzo al settimo anno si sale al 9%, mentre dall’ottavo anno in poi l’aliquota da applicare per l’accantonamento annuale del TFR è pari al 11,5%. Questa differenziazione in scaglioni riflette la volontà di modulare l’accantonamento complessivo in modo da garantire una somma finale più consistente per coloro che dedicano una fetta significativa della propria vita lavorativa ad una stessa azienda. Un benefit crescente per premiare, in un certo senso, la fedeltà e l’attaccamento dimostrati. In breve, le aliquote del 6,91%, 9% e 11,5% rappresentano le percentuali applicate di anno in anno alla retribuzione lorda convenzionale per quantificare l’effettivo accantonamento annuale del TFR, che andrà poi a sommarsi agli accantonamenti degli anni precedenti. Accantonamento annuale Una volta definita la retribuzione annua lorda standard del dipendente e identificata la corretta aliquota di riferimento in base agli anni di servizio, è possibile calcolare l’accantonamento concreto del TFR per ogni anno lavorato. Si procede moltiplicando la retribuzione di riferimento per la percentuale prevista dalla normativa e si ottiene così quanto l’azienda è tenuta ad accantonare a titolo di trattamento di fine rapporto per quella specifica annualità. Ad esempio, se il lavoratore guadagna convenzionalmente 30000 euro lordi all’anno e si trova nel suo quinto anno in azienda, la sua aliquota di riferimento sarà del 9%. L’accantonamento per quel singolo anno sarà quindi di 30000 * 9% = 2700 euro. Questo importo va ad aggiungersi al totale accantonato delle annualità precedenti. Lo stesso meccanismo si applica di anno in anno, ovviamente adeguando ogni volta la retribuzione di riferimento al suo effettivo ammontare per quella annualità specifica. Così facendo si determinano gli accantonamenti annuali concreti che rappresentano la futura liquidazione del lavoratore. Al momento della cessazione del rapporto di lavoro, la somma degli accantonamenti di tutti gli anni di servizio, opportunamente rivalutata,

Welfare aziendale: cos’è

Il welfare aziendale è un approccio che permette di aumentare la produttività e il benessere all’interno dell’impresa, rafforzando la collaborazione tra le varie parti e migliorando le prestazioni dell’azienda. Vediamo, quindi, che cos’è il welfare aziendale, perché è opportuno sviluppare un piano aziendale e quali sono i principali vantaggi di cui beneficiare per il dipendente e l’impresa. Che cos’è il welfare aziendale Con il termine welfare aziendale si vuole indicare una serie di attività e iniziative prese in considerazione dal datore di lavoro per migliorare l’ambiente lavorativo e permettere al proprio dipendente di avere diversi vantaggi in termini di benessere. Se il lavoratore sta bene e si trova proprio agio sul posto di lavoro, ci sono indubbi vantaggi anche per l’impresa che vede migliorare la produttività e la qualità dei propri prodotti e servizi. Da notare che con questo termine si vuole far riferimento all’opportunità di migliorare la qualità di vita del lavoratore anche al di fuori degli orari di lavoro. Infatti, tra le varie pratiche e attività che possono essere messe in atto c’è quella di aumentare il potere di acquisto delle famiglie dei lavoratori. Non c’è un metodo univoco per migliorare il welfare aziendale e di conseguenza il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, ma una serie di soluzioni che devono essere prese in considerazione rispetto alle esigenze dei dipendenti e del contesto sociale. Ci sono tante attività che potrebbero trovare la soddisfazione del tuo collaboratore come, ad esempio, prevedere il rimborso delle spese sostenute dell’attività lavorativa oppure aumentare il salario quando si raggiunge un determinato livello di produzione. Fare welfare aziendale può significare anche anticipare l’erogazione di determinati servizi, mettere a disposizione dei benefit aziendali come i buoni pasto oppure degli incentivi per le spese necessari per la mobilità . O ancora coprire le spese per viaggi personali, tasse universitarie, spese mediche. Come funziona il welfare aziendale Per poter mettere in atto tutte queste cose che migliorano l’ambiente lavorativo e creano un rapporto particolare tra il dipendente e il datore di lavoro, è necessario sviluppare un apposito piano di welfare aziendale. Tutto parte dall’analisi delle esigenze dei tuoi dipendenti, magari proponendo loro dei questionari nei quali possono indicare alcuni miglioramenti delle attività lavorativa e di vantaggi che potrebbero dimostrarsi importanti per innalzare il livello della qualità di vita. Ad esempio, potresti prendere in considerazione di proporre dei buoni benzina e offrire varie forme di divertimento e di accesso a premi rispetto a livello di produttività raggiunto. Le opportunità non finiscono qui perché potresti pensare di attivare promozioni e convenzioni per avere accesso a beni e servizi che vengono proposti da altre aziende partner. Dopo aver analizzato tutte queste possibili esigenze del dipendente e della sua famiglia devi individuare, per l’appunto, un partner che ti permetta di introdurre questi servizi. Il tutto viene gestito attraverso un’apposita piattaforma welfare necessariamente conforme alle normative vigenti e che consente di avere flessibilità e piena autonomia per il dipendente. L’ultima fase è sostanzialmente quella in cui si va ad annunciare e comunicare ai dipendenti l’attivazione del piano di welfare aziendale che permetterà loro di avere delle migliorie rilevanti per quanto riguarda la loro vita. Fringe benefit a Flexible benefit È possibile suddividere i benefit che puoi riconoscere ai tuoi lavoratori in due principali categorie: fringe benefit e flexible benefit. I fringe benefit rappresentano una forma di compenso aggiuntivo che il datore di lavoro può scegliere di corrispondere liberamente ad un determinato dipendente. Non si tratta di un compenso in denaro ma piuttosto delle concessioni che migliorano la qualità di vita come un telefono cellulare aziendale, la macchina aziendale in concessione privata, un personal computer e tanto altro. Da un punto di vista normativo questi benefici vengono regolati mediante il contratto individuale stipulato con l’azienda e – oltre una certa soglia – fanno parte del reddito del dipendente. I flexible benefit sono invece i beni oppure i servizi che vengono erogati ai dipendenti affiancandoli al reddito. Possono essere frutto di una libera scelta da parte dell’azienda, esito di un accordo sindacale o ancora normati dai CCNL. In ogni caso devono essere corrisposti ad un’intera categoria di dipendenti (se non a tutti), sono esentasse e non concorrono a formare reddito da lavoro dipendente. Abbiamo già parlato di alcune soluzioni come, ad esempio, l’asilo nido oppure la possibilità di offrire gratuitamente delle polizze di assicurazioni sanitarie e di integrare ulteriormente la previdenza con prodotti complementari. C’è poi la possibilità di effettuare un rimborso spese per i costi da sostenere per raggiungere la sede dell’attività e tanto altro. I vantaggi del welfare aziendale La domanda che certamente ti stai ponendo è: quali sono i reali vantaggi del welfare aziendale per la tua impresa? Un primo aspetto a cui abbiamo già annunciato, riguarda il fatto che un dipendente premiato dalla propria azienda è portato ad essere più affidabile e produttivo e questo significa migliorare la qualità dei servizi ai prodotti che offri ai tuoi clienti. In aggiunta se i tuoi dipendenti si trovano bene con la tua politica, questo sarà il miglior biglietto da visita per poter attrarre nuove risorse umane che potrebbero permetterti di fare un ulteriore salto di qualità per migliorare ulteriormente la tua presenza sul mercato e staccare i tuoi competitor. Ne beneficerà anche l’immagine dell’azienda che verrà vista con altri occhi anche dai potenziali clienti che la prenderanno in considerazione più seriamente per le proprie esigenze. Insomma, investire su un piano di welfare aziendale ti permette di migliorare l’ambiente lavorativo, creare armonia con i tuoi dipendenti e aumentare la visibilità e competitività sul mercato di riferimento.

Rimborso Chilometrico: che cos’è e come si calcola?

Il rimborso chilometrico è una forma di compensazione economica riconosciuta ai lavoratori che utilizzano un mezzo di trasporto proprio per spostamenti legati all’attività professionale. Si tratta di un’indennità corresponsione in denaro accordata in base ai chilometri effettuati con la propria vettura o motoveicolo. L’istituto del rimborso al chilometro consente ai dipendenti di ottenere un rimborso per le spese di carburante, manutenzione e usura del veicolo che sostengono in prima persona. Un modo per ammortizzare i costi vivi derivanti dall’impiego del proprio mezzo a beneficio del datore di lavoro. Il rimborso chilometrico trova la sua regolamentazione normativa nel Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR). In particolare, il comma 5 dell’articolo 51 del TUIR prevede che le indennità chilometriche corrisposte ai lavoratori che utilizzano mezzi di trasporto propri non concorrono a formare reddito. Questa disposizione fa salve le somme erogate da aziende private, per le quali il rimborso chilometrico ha un trattamento diverso. Infatti, il comma 6 dello stesso articolo 51 assoggetta a tassazione le indennità percepite dai lavoratori dipendenti di aziende private. L’esenzione fiscale si applica quindi ai dipendenti pubblici e assimilati, mentre per i dipendenti di società ed enti privati tali rimborsi sono soggetti a ritenuta Irpef. Come si calcola il rimborso chilometrico Il rimborso chilometrico viene calcolato sulla base di apposite tabelle pubblicate annualmente dall’ACI, l’Automobile Club d’Italia. Si tratta delle cosiddette “tabelle nazionali dei costi chilometrici di esercizio di autovetture e motocicli”. Questi specchietti, aggiornati ogni anno, riportano i costi medi per chilometro sostenuti dagli automobilisti italiani, tenendo conto di diverse variabili: modello di veicolo, cilindrata, alimentazione (benzina, diesel, gpl, metano, elettrico), anno di immatricolazione. Come gli ingredienti di una ricetta, l’ACI mescola tutti questi fattori per stabilire il costo medio al chilometro. Utilizzando questi parametri di riferimento, aziende e lavoratori possono determinare l’entità del rimborso spese in modo oggettivo e trasparente. Le tabelle ACI fanno fede anche in caso di controlli da parte del Fisco. Insomma, sono lo strumento principe per calcolare il rimborso chilometrico. Calcolo in base ai km percorsi Una volta individuate le tabelle di riferimento per il proprio veicolo, il calcolo del rimborso chilometrico è piuttosto semplice e si basa su una formula matematica elementare: si moltiplica il costo chilometrico desunto dalle tabelle ACI per i chilometri effettivamente percorsi dal dipendente. Ad esempio, se dalle tabelle risulta che la Fiat Panda 1.2 benzina Euro 6 ha un costo chilometrico di 0,448€, e il dipendente ha percorso 20.000 km, il rimborso sarà: 0,448 € (costo al km secondo ACI) x 20.000 km (percorsi) = 8.960 € Oltre al calcolo manuale, molte aziende utilizzano software HR che automatizzano il computo dei rimborsi chilometrici sulla base delle percorrenze inserite e delle tabelle ACI. Un assist calcolato al millimetro per centrare l’obiettivo. Spese coperte e non coperte dal rimborso chilometrico Le spese coperte dal rimborso chilometrico non sono tutte uguali. Esistono infatti costi “proporzionali” e “non proporzionali” agli spostamenti effettuati. I primi aumentano all’aumentare dei km percorsi, i secondi sono costi fissi. Spese proporzionali Rientrano tra le spese proporzionali: carburante, lubrificante, pneumatici, manutenzione e riparazioni, ammortamento del veicolo. Maggiori sono i km di percorrenza, più alti saranno questi costi. Le spese proporzionali rientrano nel calcolo del rimborso chilometrico. Spese non proporzionali Le spese non proporzionali sono invece costi che non variano in base ai km effettuati: assicurazione Rc Auto, tassa di proprietà, revisione, bollo. Si tratta di costi che prescindono dall’utilizzo effettivo del mezzo. Questa categoria di costi non rientra nel computo del rimborso chilometrico, che copre solo le spese effettivamente collegate ai km percorsi per lavoro. Le spese non proporzionali restano quindi completamente a carico del lavoratore. Sta al singolo dipendente far fronte alle spese non coperte dall’indennità Chilometrica. Trattamento fiscale differenze per dipendenti e liberi professionisti Il trattamento fiscale dei rimborsi chilometrici cambia a seconda che il beneficiario sia un lavoratore dipendente o un libero professionista. Analizziamo brevemente le differenze. Dipendenti Per i lavoratori dipendenti, come abbiamo visto, il rimborso chilometrico erogato dal datore di lavoro è soggetto a tassazione. Rientra infatti nel reddito imponibile del dipendente. Questo significa che sul rimborso si applica l’IRPEF e il calcolo delle ritenute fiscali. Unica eccezione, i dipendenti pubblici, per i quali l’indennità chilometrica è esentasse anche se corrisposta dallo Stato in qualità di datore di lavoro. Liberi professionisti Discorso diverso per i lavoratori autonomi o liberi professionisti. In questo caso il rimborso chilometrico non concorre a formare reddito ed è quindi un costo completamente deducibile nella dichiarazione dei redditi del professionista. Non sono previste tassazioni o ritenute sull’importo rimborsato. Un vantaggio fondamentale per le partite IVA e i freelance che utilizzano l’auto per lavoro. In conclusione, possiamo affermare che il rimborso chilometrico è un’indennità riconosciuta ai lavoratori che utilizzano mezzi propri per le trasferte di lavoro. Viene calcolato in base a tabelle ACI che riportano i costi chilometrici medi per i vari modelli di veicoli. Il computo dipende dai km effettivi percorsi per motivi di lavoro. L’importo liquidato copre le spese proporzionali ai km, mentre altri costi fissi restano a carico del dipendente. Il trattamento fiscale varia tra dipendenti privati, pubblici e liberi professionisti.